Dimenticate il film. E pure il libro. Il Gattopardo targato Netflix - sei puntate, per altrettante ore - è una rivoluzione copernicana, che scomoda in un sol colpo Edipo e il femminismo. Sta a cavallo tra due mondi - il mito e la modernità - , traduce (in un linguaggio appetibile al target giovane) e tradisce (aggiungendo personaggi, svolte, colpi di scena). I puristi storceranno il naso, stracciandosi le vesti; i neofiti avranno voglia di dare una sbirciatina al film, magari persino al libro, per vedere com'era "l'originale". Di certo il titolo non passerà inosservato, il che è già tantissimo in un mercato sovra affollato come quello delle serie tv.
Il Gattopardo, le differenze rispetto al romanzo
Come ha spiegato Tinny Andreatta, vicepresidente per i contenuti italiani di Netflix, in occasione della presentazione de Il Gattopardo, l'opera di riferimento da cui sono partiti per realizzare l'adattamento non è il film (anche perché va a trovare dei volti che possano tenere testa a Burt Lancaster, Alain Delon, Claudia Cardinale...) ma il libro. Nel farlo si sono presi molte, moltissime licenze poetiche. I margini d'altronde c'erano: tra un capitolo e l'altro dell'opera di Tomasi di Lampedusa passano molti anni ed è qui che l'inventiva dello sceneggiatore Richard Warlow e del regista Tom Shankland sono andati a sbizzarrirsi, colmando e arricchendo. Molti personaggi sono così diventati più rotondi, avvincenti, e ne sono anche stati aggiunti di inediti, come l'infido amico Russo, che come spiega il suo interprete Francesco Di Leva, "rappresenta la transizione tra il Regno delle due Sicilie". D'altronde bisognava andare incontro al pubblico di oggi, abituato a un passo narrativo ben diverso da quello, molto cadenzato, del film di Visconti. "L’opera di Tomadi Di Lampedusa è indiscutibilmente un capolavoro, ma possiede un’interiorità stilistica e intenzionale, una nostalgia riflessiva, che renderebbe difficile una trasposizione diretta nel formato televisivo seriale su cui stavamo lavorando", spiega Warlow. "Quindi cercavo un modo per rendere i bisogni e i desideri dei personaggi più immediati, mentre il loro mondo veniva sconvolto da un cambiamento sistematico e violento. Volevo che fossimo con loro nei momenti decisivi, di opportunità e di tragedia".
Così, la rivoluzione garibaldina l'ha fatta Netflix ringraziando cortesemente il buon Principe di Salina e regalando lo status di protagonista assoluta a Concetta (Benedetta Porcaroli), la figlia del Gattopardo. È lei il vero fulcro della narrazione: un personaggio che qui acquista un enorme peso. Da un lato Concetta incarna l'emancipazione femminile: la volontà di scegliersi il proprio destino, la rabbia di vederselo negato e - in una certa misura - la sete di vendetta verso il maschio padre e padrone. Allo stesso tempo racconta però anche il rapporto padre e figlia: un legame viscerale, che bisogna metaforicamente uccidere (tranquilli, il Principe di Salina non viene fatto fuori) per poter diventare donne. L'ego ingombrante del Gattopardo deve fare un passo indietro, altrimenti la figlia non potrà sbocciare come persona: Concetta arriva addirittura a urlarglielo in faccia, nella quinta puntata. Tale comportamento è decisamente anacronistico con i costumi dell'epoca, ma resta funzionale per spiegare a chiare lettere il sottotesto che, diversamente, sarebbe potuto sfuggire a un pubblico poco attento come quello streaming.
I protagonisti del Gattopardo
Concetta non è però l'unica donna forte che si guadagna la scena. Acquista per esempio spessore un'altra figura femminile: la moglie del Gattopardo. Interpretata da un'ottima Astrid Meloni, incarna le tradizioni, l'unità famigliare ma anche una donna che l'emancipazione se la va a prendere. La nostra non si fa affatto mettere i piedi in testa dal marito e spesso è lei la prima a capire cosa succede sotto il tetto di casa sua. Il suo specchio è la cortigiana con cui il Principe la tradisce: un'altra figura che si è scelta il proprio destino e che, nel dialogo con una Concetta in crisi esistenziale, dimostra di avere molto da raccontare. Non ultima, c'è poi Angelica: una Deva Casell che, sul set, si è davvero innamorata del suo Tancredi, alias Saul Nanni. Nella serie però lui non le è fedelissimo e lei, per tutta risposta, gli restituisce la stessa moneta senza vergognarsene. Più emancipata di così...
Kim Rossi Stuart fa il suo, ha carisma, funziona (anche se la voce gutturale non era indispensabile, anzi) ma il suo Gattopardo assume un ruolo diverso: oseremmo dire finalmente maschile, ma non maschilista, nella spartizione della scena con le sue colleghe. Ognuno è al servizio dell'altro, in un passaggio di testimone che valorizza, di volta in volta, ciascuno.
Va da sé che la Storia, intesa come la ricostruzione dei moti garibaldini, i dissidi di potere, il declino della borghesia, non rappresenti più il principale tirante narrativo: quello che, all'epoca, aveva trasformato il capolavoro di Tomaso di Lampedusa in un pomo della discordia sociale, aizzando confronti politici e diatribe, passa in secondo piano. A tenere banco ora è quel genere - il romance - che tanto piace agli abbonati di Netflix: una scelta editorialmente perfetta, più che corretta sulla carta, e che forse ci racconta molto dello spirito del nostro tempo. La lente per leggere il mondo, e le sue pulsioni, è sempre meno politica e più relazionale: piaccia o meno, bisogna passare da lì per parlare agli spettatori. Le ideologie sono al tramonto, un po' come la nobiltà ai tempi del gattopardo. Anche la nostra società è in un momento di passaggio, verso un futuro incerto.
Il Gattopardo dunque appassiona, appaga gli occhi, ha una regia impeccabile e un passo narrativo incalzante. Vuoi vedere come va a finire e il binge watching è garantito. Alla fine, però, hai la sensazione che sia, sì, una grande storia, ma non un'indimenticabile epos.