La commedia romantica potrebbe essere il genere più antico della civiltà umana – pensiamo alle satire oraziane di latina memoria, facilmente associabili al genere umoristico delle rom-com, o ai Carmina di Catullo, cui si applica una certa sospensione di giudizio per eccesso di amore e odio, spesso coincidenti nella medesima composizione. Reinventata più e più volte, a partire dal secolo scorso e con l’avvento della cinematografia d’autore, la narrativa sentimentale è approdata sul grande e piccolo schermo, rivelando molto della cultura, delle idee sull’amore, delle gerarchie e dei costumi nostrani – uno fra tutti, il matrimonio. Passando in rassegna i largamente noti cliché, mi rendo conto che la mia idea del matrimonio è stata in gran parte plasmata da Richard Curtis, autore di una serie di pellicole classiche di cui ricordo Quattro matrimoni e un funerale (1994), Notting Hill (1999), Il Diario di Bridget Jones (2001) e Love Actually (2003). Confezioni stratificate di spirito romantico e disastrosi imprevisti, il tutto glassato dall’incantevole patina di un “per sempre” – il che, devo ammettere, mi pare oggi un’ermetica gabbia piuttosto che un piacevole The End.

Vademecum matrimoniale di una cinica pop appassionata di rom-com

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Sunset Boulevard//Getty Images
Jean-Paul Belmondo e Catherine Deneuve sul set del film La Sirena del Mississippi (1969).


La mia risposta automatica a ogni argomentazione matrimoniale è un sonoro vade retro – e in parte è colpa di questi film. La sposa calata in un grande sufflè bianco-chiffon, le damigelle in abiti color pesca matura o azzurro carta da zucchero, senza alcuno scrupolo effettivo sulla liceità di far utilizzare un colore simile a chi ha il sottotono di una mela Granny Smith. E il tema non è solo e personalmente interessante per via del recente giro di boa dei 25 – età dopo la quale, a quanto pare, si è effettivamente adulti e socialmente pronti al “grande passo” – ma anche per via del luogo temporale in cui ci troviamo: fra maggio e settembre i matrimoni piovono su di noi come stelle nella notte di San Lorenzo.

L’autore di Quattro matrimoni e un funerale ne sa qualcosa: pare che l’ispirazione gli sia venuta per via di un sovraccarico di nozze cui si è trovato a partecipare fra i venti e i trent’anni. Secondo i suoi calcoli, si è trattato di sessantasette matrimoni in dieci anni – il che mi porta a domandarmi se io effettivamente conosca così tante persone, e se, in caso di risposta affermativa, mi vogliano così bene da portare il mio cinismo pop al loro “giorno più bello” (Cito qui uno dei tanti slogan di marketing bridal).

Dunque, dopo aver assistito a un lungo sermone sullo stare insieme, sulla necessità di raccogliere il proprio sé per fare spazio all’altro, Curtis sarebbe stato fulminato dalla brillante idea di una storia d’amore dal ritmo comico, una sorta di dramma in costume contemporaneo ambientato fra castelli, cappelli in stile Ascot e personaggi dell’alta società britannica dall’accento melenso – il New York Times l’ha definito “fragola e panna”. Una porzione significativa del film si svolge all’interno di chiese – compreso il funerale citato nel titolo, la cui funzione nella trama è invitare i personaggi a vivere in nome dell’amore, e non del matrimonio.

Aggiungo qui una nota sulla sistemazione abitativa dello stesso Curtis, recuperata da una recensione del 1994 sul New York Times: all’epoca del concepimento della pellicola, il regista britannico viveva in una chiesa a Ladbroke Grove, Londra. Si trattava di una cappella battista convertita, con una vasca per abluzione che Curtis e la compagna Emma Freud pianificavano di trasformare in uno stagno per pesci. Come pala d’altare avevano una gigantografia di Miranda Richardson nei panni della regina Elisabetta I nella serie BBC Blackadder, co-diretta dallo stesso Curtis. A questo punto, lo spezzone che più apprezzo del film – quello in cui Rowan Atkinson nei panni di un ecclesiastico appena ordinato ravviva la sua lettura con un erroneo “Capra Santa” – non mi sorprende più. Difatti, Quattro matrimoni e un funerale è una pellicola corale, piena dei soliti cliché che ti aspetti di trovare in un cerimoniale degno – il cugino belloccio, lo zio ubriaco e fuori luogo, la sorella dalla lacrima facile e il playboy ruba-cuori che si trova fatalmente al tavolo con le ex. Ma la vera morale che ne traggo è che i legami di amicizia fra i membri del suddetto coro sono molto più forti di uno “sì, lo voglio” con firma a carico.

Cavalli, Segugi e altri aneddoti per future spose

maura tierney in 'forces of nature'pinterest
Archive Photos//Getty Images
Maura Tierney e le sue damigelle si preparano per il matrimonio in una scena del film Forces of Nature (1999).


Una decina di anni dopo, lo stesso Curtis ha diretto un’altra pellicola che menziono fra i miei cult: Love Actually. A differenza di Quattro matrimoni e un funerale, quest’ultima gode di pessime recensioni negli archivi della critica. “Un indigeribile pudding di Natale prodotto dalla fabbrica del whimsy britannico responsabile di dolci abbastanza gustosi come Quattro matrimoni e un funerale, Notting Hill e Il diario di Bridget Jones”. Il pudding è riconducile a una commedia romantica di particolare lunghezza, simile a un’epopea da Oscar sul filone della massima secondo cui “l’amore sia dappertutto”. A supporto della tesi, l’inizio e la fine del film sono impastati di baci e abbracci sullo sfondo del gate di Heathrow. Nel mezzo, un licenzioso presidente degli Stati Uniti che, per difendere l’amata, provoca un raffreddamento dei rapporti anglo-americani; due controfigure che mimano scene sessualmente esplicite su un set, e che finiranno per salutarsi, già innamorate, con un bacio sulla guancia; e donne in carriera “di una certa età” ormai rassegnate al fatto che amore e successo sul lavoro non possono andare di pari passo.

Di contro alle argute recensioni del New York Times, ammetto che continuo a guardare con piacere Love Actually. Mi identifico molto spesso con Bridget Jones. Un po’ meno con Anna Scott (Julia Roberts) di Notting Hill, benché l’idea di essere la donna di successo che sposa il bibliotecario indie che, solo per una breve chiacchiera formale, si finge redattore della fantomatica rivista Cavalli & Segugi, sia esattamente il tipo di aneddoto che vorrei si raccontasse al mio matrimonio. Date le premesse, non sono più sicura che consigliare la visione dei film di Richard Curtis sia poi un’ottima idea per le spose settembrine – tale doveva essere il fine del pezzo. Magari si potrebbe fare un rewatch collettivo per un gioco dei cliché. Del tipo verificare quanti siano effettivamente realistici. Nel frattempo, io continuo a pensare alla mia carriera come redattrice ippica di Cavalli & Segugi – del matrimonio non se ne parla.