Elementare Lucy! Ve la ricordate, vero, Joan Watson, l'assistente dalla logica stringente di Sherlock Holmes nella serie Elementary, riproposta del mito al femminile, gonna, tacchi e taglio d’occhi così sottile che ti spezza in due? A darle quell’energia era proprio Lucy Liu, cresciuta a New York, Queens, da genitori di Taiwan, seconda attrice sino-americana a guadagnarsi la stella sull’Hollywood Walk of Fame dopo Anna May Wong nel 1960. Attrice d’azione e sempre un po’ badass, una ragazzaccia, specialista d’arti marziali famosa per Ally McBeal, Charlie’s Angels, e specialmente la cattivissima O’Ren in Kill Bill 1 e 2, il ruolo che ha fatto di lei un’icona.

Liu, 57 anni, sagittario, anche pittrice di talento, è ora sugli schermi italiani con l’horror-ghost Presence di Steven Soderbergh e il Festival di Locarno diretto da Giona A. Nazzaro, in programma dal 6 al 16 agosto, ha avuto la splendida idea di celebrarla con il Lifetime Achievement Award, il premio alla carriera, in un palmares di grande pregio che contempla anche Jackie Chan, Emma Thompson, Milena Canonero.

Riconoscimento giusto quanto alieno alla classicità dei benpensanti, perché Lucy Liu non si addomestica, e lo dimostra la scoperta, al festival, del suo ultimo film Rosemead, diretto da Eric Lin e da lei prodotto, «un’opera che ha lasciato un segno indelebile nella mia vita» racconta a Elle la protagonista che, nella vita, è mamma di Rockwell nato nel 2015 grazie alla gravidanza surrogata «perché il lavoro non mi lasciava tempo di programmare niente e io un figlio lo volevo». Da single, così come lo sta crescendo.

In qualche modo, anche se non lo dice, la storia del film la riguarda da vicino: «si ispira a fatti veri, svelati nel 2017 da una serie di articoli di Frank Shyongil per il Los Angeles Times. È il dramma di una madre vedova, a sua volta malata terminale e del figlio adolescente schizofrenico. Non credo che qualcuno avrebbe creduto alla vicenda narrata, se alla base non ci fosse la cronaca. Ci ho messo sette anni, un’eternità, a produrla, ma qualcosa mi diceva che dovevo farlo. Nessuno ha mai avuto il coraggio d’ambientare una storia così cruda e intima nella nostra comunità asiatica di Los Angeles, esattamente a San Gabriel Valley. Gli attori sino-americani di solito sono relegati all’action, ai ruoli da badass oppure al kitsch dei film che ci raccontano quant’è ricca, benestante e felice la nostra comunità. Ma non è tutto così». Il suo personaggio, Irene, ha da poco perso il marito, dirige una stamperia e nasconde a tutti la gravità della malattia e le sedute di chemio, specialmente al figlio Joe, il bravissimo Lawrence Shou, diciassette anni, che combatte con una schizofrenia non detta e mal curata e il peggioramento si vede dalle crisi di paranoia e dai disegni a scuola, fogli zeppi i ragni neri. Irene nega tutto, anche di fronte allo psicologo: «Non è che perché hai i tratti cinesi puoi capire tutto di noi!». Quando però la donna scopre sul computer del ragazzo ricerche dettagliate sulle stragi di massa nei licei americani, quel che resta del suo ottimismo si sfalda pian piano, la camminata si incurva, lascia l'attività, vende tutto, e quando Joe sparisce ciabatta per tutta Los Angeles con le foto segnaletiche del figlio: «chi l’ha visto?».

Lucy, le chiedo, dove ha preso l’ispirazione per diventare Irene?

«Dalle famiglie asio-americane, anche la mia. Ne conosco la fisicità, lo slang, la cultura ma soprattutto il disagio di ammettere: “sto male”. Chi prende medicine è subito criticato, il male, e soprattutto i disturbi mentali, diffusissimi, si nascondono. Bisogna salvare la faccia, lo ripetono spesso. È il senso di colpa dell’immigrato asiatico: tutto deve andare nei migliori dei modi, socialmente devi essere impeccabile. Sorridere. Questa è la nostra storia. Spero di averla raccontata».

È stato facile?

«Per niente. Oggi la prima domanda che ti fanno è: quanto il film può piacere ai social, quanto può diventare virale, quanti soldi ci puoi fare? In Rosemead non c’è nulla di “sexy”, o di accattivante, non ci sono arti marziali, calci rotanti, ragazze cattive. Però ci sono l’emozione e l’amore per la mia comunità d’origine e per le sue donne».