24 MAGGIO 2025, NADIA MELLITI, 23 ANNI, FRANCESE DI ORIGINE MAGHREBINA

DAL PROVINO IN STRADA AL PREMIO COME MIGLIOR ATTRICE A CANNES. UNA BELLA STORIA

A Cannes edizione 78, premi corretti, senza troppe divagazioni rispetto ai pronostici, con il riconoscimento più alto al film di Jafar Panahi Un simple accident, titolo che non vale per la mezza giornata di black out che ha paralizzato la Croisette e che avrebbe origine dolosa. Insomma, non un semplice incidente. Ha colto invece di sorpresa il premio, bello e azzeccato, per la miglior interpretazione femminile a Nadia Melliti protagonista di La petite Derniere di Hafsia Herzi, e perfetta ribelle, simbolo di questo festival assai politico.

23 anni, francese di origine algerina, fisico arrabbiato e temprato dagli esercizi, la neo-attrice si sta laureando in discipline dello sport e nel film interpreta una ragazza lesbica mussulmana, fedele ai riti della preghiera ma decisa a scoprire la propria sessualità prima con vergogna e timore, specialmente in famiglia, poi libera attraverso gli studi di filosofia, sui siti di incontri, nei bar gay, al Gay Pride e infine con l’amore per un’infermiera coreana.

Un ruolo coraggioso a cui Nadia presta la bella faccia berbera affilata che sa passare dalla durezza al sorriso, dalla sottomissione al rifiuto.

Il suo arrivo sul set, poi a Cannes e addirittura il premio al primo film, ci raccontano una storia di overnight success, e senza che lei ci abbia pensato, anzi: «La mia passione è lo sport, è stato difficile coniugare lo studio e il lavoro per il film. Ero perplessa, poi mi son detta: “Perché no?”».

L’hanno notata mentre andava a spasso per Parigi, a Chatelet, grazie a un «casting selvaggio», e al volo, vincendo le sue perplessità, le hanno proposto un primo provino, poi un secondo, quello decisivo. «Nell’andarsene» ha detto la regista «mi ha voltato le spalle e ho notato quel suo modo inconfondibile di camminare, deciso, poco affettato. Era quello che cercavo».

Ora per lei, giovanissima, si tratta solo di decidere se è meglio giocare in difesa o in attacco. Nel cinema o nello sport? Nadia, con quel passo che brucia l’aria, deciderà da sola.

nadia melliti palma d'oro a cannes 2025 come migliore attrice per "the little sister"pinterest
ANTONIN THUILLIER//Getty Images
Nadia Melliti Palma d’Oro a Cannes 2025 come migliore attrice per "The Little Sister"

23 MAGGIO 2025, GRAN FINALE SULLA CROISETTE, JOSH O’ CONNOR E DUE FILM ITALIANI CHE STRAPPANO L’APPLAUSO

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Victor Boyko//Getty Images
Alana Haim e Josh O’Connor sul red carpet di "The Mastermind" a Cannes 2025

A giudicare dalle stelle e stellette sui magazine di Cannes 78 che volge alla fine, per la Palma d’oro e i diversi premi bisogna puntare su Sound of Falling, Two Prosecutors, Dossier 137, tra l’altro film francese che non uscirà da Cannes senza lottare, così come ci sarà afflato nazionale per La Nouvelle vague di Linklater, per il film rave mistico-politico Sirat e soprattutto Un simple accident di Jafar Panahi. Poi ogni sorpresa è possibile, anche quel di cui tanto si parla e cioè un premio per l’interpretazione di Valeria Golino in Fuori unico nostro film in concorso ufficiale.

L’Italia, già. Ce la faremo? Di sicuro nella sezione Un certain Regard ci siamo fatti notare e lodare con due film che più indipendenti e liberi non si può. Riuscitissimo, Le città di pianura di Francesco Sossai, nome da tenere a mente, che insegue la notte senza mai fine alla ricerca dell’ultimo bicchiere di due sderenati, eppure incantevoli, cinquantenni, road movie alcolico nel basso Veneto, provincia che sta tra commedia all’italiana e l’America spoglia e on the road di Jarmush. I due protagonisti sono Sergio Romano e il musicista e perfomer Pierpaolo Capovilla e, mentre aspettano il ritorno, forse è una leggenda metropolitana, di Andrea Pennacchi, istruiscono un’educazione sentimentale a modo loro per il giovane Filippo Scotti, troppo secchione per non farsi felicemente traviare. Mood di pianura devastata dall’industrializzazione, bar e night fané di cui si era persa notizia, malinconia, inedita e divertita dolcezza, più Amarone che amaro.

Una sorpresa, forse meno nitida nella sceneggiatura troppo ambiziosa, ma piena di svolte inattese, è anche quella che ci riserva, Testa o croce? di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis autori già dell’ottimo Re Granchio. È un western, ambientato però in Toscana tra i butteri nel 1981 quando, di passaggio, furoreggiava il famoso Wilde West Show di Buffalo Bill qui interpretato da un grandioso John C. Really. Succede che il timido buttero Santino, interpretato da Alessandro Borghi tra timidezza, fantasy e spunti horror romantici, batte un vero cowboy nel domare un cavallo, ammazza l’intollerabile marito ufficiale della deliziosa Rosa (Nadia Tereszkiewicz) e fugge con lei, che del film diventerà la forza e la vendetta. Spericolato e inventivo, ironico, con un certo fascino.

john c. reilly, nadia tereszkiewicz e alessandro borghi durante il photocall del film italiano testa o croce?pinterest
VALERY HACHE//Getty Images
John C. Reilly, Nadia Tereszkiewicz e Alessandro Borghi durante il photocall del film italiano Testa o croce?

E infine arriva lei la regista di gran talento Kelly Reichardt che nel film in concorso The mastermind reinventa il film di rapine appoggiandosi sul protagonista J.B. Mooney, un flemmatico Josh O’Connor da premio, tontolone ben sposato, appassionato di musei e falegname senza occupazione che, per svoltare, s’inventa il furto di quattro opere d’arte. È il 1970 - il minimo che si possa dire di questo Cannes 78 è che guarda ostinatamente al passato – da ogni tv spuntano immagini e frammenti della guerra in Vietnam e l’impresa di Mooney è condita da tali infantili errori e complici arronzati, che lo porta dritto alla fuga, con progressiva solitudine, dal Massachusetts a Cleveland. L’occasione per attraversare l’America profonda e dimenticata, in compagnia distratta, sullo sfondo, di movimenti pacifisti, femministe, comuni hippies. La contro elegia americana di un pover’ uomo che sognava l’arte e il crimine e si ritrova homeless.

21 MAGGIO 2025, DA CANNES AL PARCO DELL'ARISTON

Anteprima e talk dal mitico teatro del festival della canzone con 180 sale italiane collegate in diretta streaming. Elle ha seguito in esclusiva, le 36 ore frenetiche e avventurose dell'equipe di Fuori, unico film italiano in concorso al Festival. Con sorpresa finale.

Cosa significa per un autore e per i protagonisti di un film in concorso l’avventura del festival di Cannes? Stress, frenesia, emozione, gioia e talvolta delusione, sempre tanta fatica e mancanza di sonno.

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20 MAGGIO 2025, ELOGIO DI FUORI. E DI VALERIA, MATILDA, ELODIE

matilda de angelis, valeria golino e elodie sul red carpet di "fuori" di mario martone a cannes 2025pinterest
SAMEER AL-DOUMY//Getty Images
Matilda De Angelis, Valeria Golino e Elodie sul red carpet di Fuori di Mario Martone a Cannes 2025

Non è meraviglioso poter dire che il cinema italiano, tanto in subbuglio e tanto temuto, esprime invece registe e registi magnifici? E in particolare, qui sulla Croisette, un autore di straordinario talento e libertà come Mario Martone?

Anticonformista sotto l’aspetto quieto, creatore del teatro sperimentale e d’avanguardia nella Napoli-tribù degli anni Settanta e Ottanta, Martone arriva per la prima volta a Cannes nel 1995 con il perturbante L’amore molesto da Elena Ferrante, quando della violenza da disamore ancora si parlava poco. Militante dell’arte e della scrittura, è tornato ieri sulla Croisette con il bellissimo Fuori, film che unisce due opere di Goliarda Sapienza, l’autrice de L’arte della gioia: L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio.

Grandi applausi all’anteprima, parole sicure sull’urgenza che il governo si occupi, anche attraverso il dialogo, della crisi occupazionale del nostro settore audiovisivo. E il regalo di una storia che attraversa una di quelle estati luminose di Roma, raramente così ben fotografata e ricostruita.

Siamo nel 1980. Per disagio economico e per rabbia, l’attrice-scrittrice Goliarda, un tempo idolatrata dai salotti borghesi progressisti e ora senza più mezzi, ruba i gioielli a un’amica durante una festa e viene incarcerata a Rebibbia. È lei, là dentro, la «diversa», con i suoi pantaloni di seta fine. Ma ben presto il dentro si rivela meglio del fuori: il carcere era la sua ambizione, lo sognava. «Qui nessuno ti giudica. Sei uguale alle altre.»

Per Goliarda, che ama le donne e gli uomini e non riesce a far pubblicare il suo capolavoro — scoprirà tardi la Francia e L’arte della gioia — quell’esperienza è una rinascita. Un pizzico che la risveglia dall’apatia, da quello stordimento anarchico e spaurito che così bene interpreta Valeria Golino, ormai portabandiera ufficiale della grande scrittrice.

Una volta uscita da Rebibbia (e lo spaccato sul carcere femminile è notevole), Goliarda reincontra le amiche detenute: Roberta, giovane ed esuberante eroinomane, militante politica vicina alla lotta armata — la strepitosa Matilda De Angelis — e Barbara, Elodie di dolente e rabbiosa bellezza.

Come tutto il film, scritto da Ippolita di Majo, il finale è sfumato, dolce e straziante di attualità. Il racconto scivola lieve e assolato, alternando zone del tempo che danno vita a tante vie di fuga. E la storia degli sfioramenti e dell’amicizia tra donne così diverse culmina nello scandalo di quella doccia a tre, nude sotto l’acqua, solo accennata: un rito di purificazione e sensualità. Brava Golino a mostrarsi senza alibi nella sua nuda bellezza matura.

Il rapporto con il marito molto più giovane, Angelo Pellegrino (interpretato da Corrado Fortuna), è appena tratteggiato, ma narra una complicità. «Quando sono fuori», diceva una detenuta a Goliarda, «mi sento ancora dentro.»
Il mondo libero ha tante sbarre.

Noi ci godiamo la libertà di tre artiste e protagoniste — Matilda De Angelis, Elodie e Valeria Golino — che quel mondo, davvero, lo fanno tremare.

Il ritorno di Jafar Panahi

Di prigioni narra anche il film che già aspira alla Palma d’Oro: Un simple accident dell’iraniano Jafar Panahi, più volte incarcerato nel temibile carcere di Evin a Teheran. Stavolta, dopo anni di privazione, è presente a Cannes perché ha riottenuto il permesso di viaggiare.
La censura e il carcere non l’hanno piegato.

Il film racconta dell’operaio Vahid, che crede di riconoscere il suo torturatore. Lo aveva incontrato anni prima, bendato, ma ne percepiva il passo, l’incedere singolare, fallato. Lo stordisce e lo rinchiude nel suo van: vorrebbe vendicarsi, ma poi lo assale il dubbio.
Davvero è lui?

Insieme aperto alla critica dura verso il regime e mosso dal dubbio umano, il film — girato in clandestinità — è più esplicito delle ultime sue opere: non cerca rifugio nella metafora, corre dritto alla denuncia. E insieme ci dice che prima di ogni vendetta deve scattare la riflessione. Anche se affrontarla fa male.

È il film giusto, al posto giusto: quello dell’etica, e del Festival di Cannes «più politico dal 1968», come l’hanno già definito.

19 MAGGIO 2025, IL GIORNO ALPHA E LA CROISETTE DIVISA

denzel washington, spike lee e asap rocky sul red carpet di "highest 2 lowest" a cannes 2025pinterest
Marc Piasecki//Getty Images
Denzel Washington, Spike Lee e ASAP Rocky sul red carpet di "Highest 2 Lowest" a Cannes 2025

Giornata di pioggia battente, e grandi contrasti. E i francesi (critici) che s’incazzano, come direbbe Paolo Conte. Non sono mancati momenti da trascrivere: Le Monde applaude al capolavoro «splendido» Alpha di Julia Ducournau, e Libération, fratello d’edicola, sigla e anticipa la recensione dello stesso film con una sola parola: NUL. Insomma, un niente, zero.

Segue dibattito: «Perché il film ci ha esasperato, ecc. ecc.». Parevano sazi, e invece sbarca Spike Lee, e va anche peggio — nonostante il fracassone vestito arancione a strisce e il fracasso che fa in ogni dove, perché urla, sbraita e salta: disturbo assoluto della quiete.

Con Denzel Washington, Palma d’oro alla carriera a sorpresa, il regista ha presentato fuori concorso Highest 2 Lowest, e la parola “nanar” s’è sprecata nei titoli di siti e magazine d’Oltralpe: «un vieux nanar», ovvero brutto, vecchio e sorpassato. Risveglio brusco.

E se per Spike l’accanimento un po’ ci sta — il film in effetti non rappresenta il culmine della sua carriera ed è pure noioso — su Alpha non siamo per niente in linea, benché la regista, chiacchierando con Elle, scrolli le spalle e dica: «Non posso farci niente, dirigo un film e divido il mondo. Ma non saprei fare altro».

Vi ricordate tutti la sua Palma d’Oro a sorpresa con Titane, body horror transgender, lei/lui incinta di una lucente Cadillac?

Alpha: un film viscerale tra malattia, maternità e memoria

In Alpha l’orizzonte appare meno Métal Hurlant, ma è un pieno di passioni e malattie, terrificante e straziante insieme. Forse alla fine è tutta un’allucinazione della madre, ma ancora si è incerti sull’interpretazione — e non è un male.

La storia è quella di Alpha, dodici anni, che torna a casa con un tatuaggio forse infetto. La mamma (Golshifteh Farahani), medico, teme il contagio. Siamo negli anni ’80-’90, l’epoca dell’AIDS: «una pandemia di cui non si è mai voluto parlare, vergognandosi perché nasceva dalla sessualità e ne portano la colpa, sommersa, le generazioni che non c'erano», dice Ducournau.

Gli effetti del virus nel film sono di straordinaria potenza: uomini e donne cominciano a marmorizzarsi, sopravvivono, abbacinanti, mentre il loro corpo si fa di pietra screziata.

Ma l’inizio di tutto — e poi il ritorno al punto A, lettera importante nel film — è la piccola Alpha a cinque anni che unisce con un tratto di pennarello i buchi sul braccio dello zio eroinomane Amir (Tahar Rahim). I salti temporali sono difficili da intercettare e unire, specie nell’ultima parte del film. Sta di fatto che Amir, o il suo fantasma, riappare nella stanza della ragazzina ormai adolescente.

La mamma, la sorella, non vuole abbandonarlo, nonostante le sue divagazioni da tossico, e l’amore — o il senso di colpa per un segreto nascosto — prevalgono.

Le immagini del film testimoniano il talento sconfinato, oltraggioso, talvolta troppo disordinato della regista: quel popolo di degenti come statue, la fuga spettacolare dei ragazzini dalla piscina mentre il sangue di Alpha arrossa l’acqua, l’emoglobina che inebria il film come il vento rosso del deserto in cui tutto si dissolve e che, per la nonna berbera, è il viatico del demonio.

Tahar Rahim, supremo nella trasformazione fisica, emoziona e ci fa vibrare di rabbia. C’è terrore ancestrale all’origine di questa dilagante metafora sulla maternità, bene supremo che insieme cura e terrorizza.

Un film esagerato negli effetti ed effettacci? Forse. Da discutere? Tanto. Ma “nul”? Davvero no. Anzi: un potente pugno ai luoghi comuni d’identità e narrativi, con il cuore pulsante di una donna. Dunque, imperdonabile.

18 MAGGIO 2025, IL CALENDARIO VIRTUALE DELLA CROISETTE

Gli anni ’50 secondo Wes Anderson

Gli anni ’50 dell’enigmatico industriale, il più ricco della terra, Anatole “Zsa-zsa” Korda (Benicio del Toro): sopravvissuto a crash aerei e attentati, ha nove figli relegati nel refettorio. Una sola, la più bella e già suorina (Mia Threapleton, figlia di Kate Winslet, presenza impressionante sullo schermo), è nominata unica erede e dunque pronta a ogni sagacia.

Case fastose e un sogno per Zsa Zsa: portare a conclusione nella Fenicia asiatica un’infrastruttura ferroviaria visionaria e miliardaria, The Phoenician Scheme, come dice il titolo. Un nome a caso come riferimento? Elon Musk. Ma qui siamo nel cervello e negli occhi di Wes Anderson, dove la realtà è un bellissimo design che si ripete all’infinito ed è diventato anche un sito che ripropone colori, architetture, soprattutto geometrie sempre uguali, e attori strabilianti quanto fedeli: Benicio Del Toro, Tom Hanks, Bryan Cranston, Mathieu Amalric, Scarlett Johansson.

Sempre un po’ Prada Bar, lo si guarda con pazienza e una certa gioia nello sguardo, pur pensando: chissà quanto si sono divertiti tra loro sul set. Bella vita!

Resta la gioia degli occhioni blu di Mia, quella frangetta nera squisitamente mal tagliata, il velo bianco, il suo rosario tempestato di pietre preziose come la pipa che fuma. Sotto l’abito bianco talare, calze verde oliva: perché quasi tutto in Anderson declina tra verde salvia e verde oliva. È il suo mondo, ha il suo fascino — ma forse ormai più da festival del design che da Croisette.

Gli anni ’60 di À bout de souffle e la Nouvelle Vague

Gli anni ’60 di À bout de souffle, Jean-Luc Godard, la banda dei Cahiers du cinéma, critici poi registi. Sono gli anni in cui nasce la Nouvelle Vague, come si intitola il film omaggio e insieme oltraggio di Richard Linklater.

Difficile non emozionarsi (data una certa età) nel vedere l’ufficio dei Cahiers con le copertine affisse al muro e le didascalie con i nomi di ciascun protagonista: attori ignoti che diventano François Truffaut fresco del successo di I 400 colpi, Claude Chabrol con la pipa, Jacques Rivette, Éric Rohmer, lo stesso Godard, ma anche il geniale assistente Pierre Rissient e in visita il nume un po’ cialtrone di tutti, Roberto Rossellini.

Tutto in bianco e nero, come il film seminale di cui Linklater racconta la genesi inconsueta. E poi ci sono Jean Seberg (una vera rivelazione l’interprete Zoey Deutch), la scintilla scatenante, e Jean-Paul Belmondo. Tutti scelti per somiglianza assoluta: il mio preferito è il mitico direttore della fotografia Raoul Coutard, interpretato da Mathieu Penchina, mentre fa tenerezza l’assistente Suzon Faye.

Nel gioco dell’oca del cinema “fra di noi” c’è molto divertimento e sovrapposizione tra lo stile noir e disseccato di Linklater e la sfida antisistema di Godard: un gusto molto outlaw che può arrivare anche a chi quell’epoca non la conosce ma l’ha sognata.

Personalmente “sento” un po’ troppo il gioco dei sosia, che porta il film verso il comics — ma forse è un bene. Di sicuro ho un problema con l’attore che interpreta Belmondo: l’originale era fuoco, fiamme e giovinezza. Questo invece un po’ dégueulasse, come direbbe la battuta culto del film. Comunque sia, c’è vita.

Gli anni ’70 e il ritorno della memoria in Brasile

Gli anni ’70 del Brasile esplodono nel film più samba e al calor bianco visto sin qui: O Agente Secreto di Kleber Mendonça Filho. Fernando lavora in una banca del sangue quando riceve la visita di Flavia, ricercatrice sulle tracce del padre di lui e dei documenti scottanti che possono diventare un’arma di opposizione nel caso del ritorno al potere di Bolsonaro.

La memoria degli archivi ci riporta al 1977, ai desaparecidos, alla storia di un padre che tenta di fuggire salvando segreti e figlio. Nel mezzo, il Carnevale di Rio che tutto sembra colorare d’ottimismo, silenziando torture e assassini: in un solo giorno, muoiono 70 persone, celate al mondo.

Il ritorno della memoria storica è il leitmotiv del recente cinema brasiliano, come ha dimostrato Io sono ancora qui di Walter Salles con Fernanda Torres.
O Agente Secreto pare destinato a diventare un’ulteriore pietra miliare nel viaggio dentro il passato, un risveglio acuto e doloroso per il popolo brasiliano. Una danza con la morte e l’ingiustizia, dai toni emotivi e dolenti di un romanzo familiare.

17 MAGGIO 2025, PEDRO PASCAL, ASTER E L'AMERICA DISTOPICA

austin butler, emma stone e pedro pascal sul red carpet di "eddington"pinterest
Victor Boyko
Austin Butler, Emma Stone e Pedro Pascal sul red carpet di Eddington

Baffo e occhialini tondi da intellettuale, il tanto chiacchierato Pedro Pascal arriva sul red carpet, combatte con un’ape da soirée e si porta via gli applausi assieme ad Emma Stone e Austin Butler, protagonisti con Joaquin Phoenix del film più allucinato, dark e decisamente pazzo visto fin qui, Eddington di Ari Aster.

Un western d’oggigiorno, o dell’altro ieri, in una cittadina surreale dell’America profonda dove arriva il Covid-19 ma lo sceriffo rifiuta di indossare la mascherina, un no vax subito in lotta con il sindaco in carica, piuttosto woke: si scatena la battaglia elettorale, Joaquin lo sceriffo è in casa confinato con una moglie che fa bambole di pezza, allucinata anche lei, la diafana Emma Stone e la suocera invadente.

La cittadina si divide, il Black Lives Matter arriva tra i ragazzi tutti WASP e isolati sul pianeta, distanziati. Lo humor è nero, le storie e le derive troppe, l’immaginario paranoico, l’America decisamente in fase di decomposizione, come fu poi dimostrato.

Apologo (?) non facile da seguire nel dettaglio, certo ricco, pure troppo, con un cast brillantissimo, ma a furia di aggiungere il rischio, o forse era l’intento?, è quello di disperdere e polverizzare il senso. E comunque, da vedere.

Sguardi femminili, grazia queer e trofei

Più modestia, ma coraggio e sicurezza per il film di Hafsia Herzy, La petite dernière, dove l’attrice-regista francese d’origine maghrebina mette in scena il racconto asmatico e febbrile, privo di morbosità ma con la giusta distanza, della vita inquieta della giovane Fatima, mussulmana osservante di tutte le preghiere e lesbica apprendista in un universo ostile: memorabile la scena in macchina dopo un appuntamento online con una donna ben più adulta che le elenca senza vergogna tutti i modi di far l’amore tra donne, anche i più tricky e reconditi. Ed è dolce e sensuale anche l’amore per la fragile infermiera coreana, impacciato il modo in cui respinge il fidanzato che la ama e solo la vorrebbe «un po’ più femminile».

Se il film non è perfetto, ha però una grazia speciale ed è incisiva l’apparizione della novizia Nadia Mellitti, protagonista in giubbotto e cappellino, football come passione, modi bruschi e bellezza tesa, imbronciata. Da ricordare.

Come da ricordare, fra i tanti look di Cannes, c’è sicuramente l’abito neoclassico e insieme visionario, riflessi scintillanti, cashmere e seta, insolitamente candido per lei che crede al nero, firmato da Brunello Cucinelli e indossato da Angelina Jolie, di nuovo sulla Croisette come madrina del Trofeo Chopard. Calzava a pennello con i riflessi lunari sul molo e sulla spiaggia del Carlton dove si è svolta l’esclusiva cena e cerimonia, presenti tutti: le nostre Alice e Alba Rohrwacher, Quentin Tarantino e Carla Bruni ospite speciale.

Molti i gioielli Chopard, il brand che ha reinventato la Palma d’Oro e la cui proprietaria e immagine è Caroline Scheufele, amica simbolo, oltre che sponsor del Festival. I premi sono andati come ogni anno a due giovani protagonisti emergenti e anche questa volta non si sbaglia: Angelina, dopo aver ricordato le artiste e i reporter caduti tra Ucraina e Gaza, ha consegnato il trofeo alla giovane francese Marie Colomb, protagonista della miniserie Laetitia, vestita per l’occasione con un abito cortissimo composto di tanti petali rosa e bianchi, una delizia, e a Finn Bennet, frenetico e nervosissimo, grande rivelazione del film Warfare.

La serata era magica e perfetta, come sempre. La cena era seduta, posti assegnati, modo sicuro per evitare imbucati, il cinema brillava per presenze. Festa a seguire per i più nottambuli sulla terrazza Chopard al Martinez. Un altro incanto.

E per finire, gossip: il film di cui tutti già cianciano come possibile Palma d’Oro anche se nessuno l’ha ancora visto è The History of Sound, Josh O’Connor e Paul Mescal, un irlandese e un inglese, soldati innamorati sullo sfondo della Prima guerra mondiale. Questo si mormora nei party in Croisette, ma subito dopo tutti ci chiedono di Fuori di Mario Martone e di Valeria Golino, amatissima in Francia, nei panni di Goliarda SapienzaDoppio brindisi scaramantico.

16 MAGGIO 2025, IMPEGNO, SEX SYMBOL D’AUTORE, SENSUALITÀ

hafsia herzi e nadia melliti a cannes per presentare la petite derniérepinterest
Sylvain Lefevre//Getty Images
Hafsia Herzi e Nadia Melliti a Cannes per presentare La Petite Derniére

Il suo film Sirat, psichedelico, ansiogeno, viaggio nella tempesta di sabbia di un rave nel deserto arabo con un padre alla ricerca del figlio maggiore disperso, divide Cannes tra entusiasti e detrattori, più o meno convinti di questa immaginifica lettura della strage di Hamas del 7 ottobre.

Lui, il regista Oliver Laxe, attore e regista franco-lusitano, invece mette tutti d’accordo: è il sex symbol inatteso di Cannes. Alto quasi due metri, è passato dalla fase sufi a quella surfista, barba e capelli lunghi, assai musclé, domina tutti sul tappeto rosso, un che di gitano temperato dal gusto europeo. Se ne parla a tutti i tavoli, specialmente maschili. E le foto testimoniano.

Convince un po’ meno il suo film. Ma conferma la decisa linea d’impegno, «il festival più politico dopo il ‘68», scelta da Thierry Fremaux in considerazione dei tempi duri e traballanti che ci circondano. Ogni film è un’affermazione di contropotere.

Il ritorno del cinema militante e dei corpi sovversivi

Come il tesissimo I due procuratori, in concorso, non facile per tempi drammaturgici, tutti giustificati, che tuttavia lievita nelle coscienze. Il film di Sergei Loznitsa, cresciuto a Kiev, è una fredda ma devastante indagine nell’Unione Sovietica del 1937, al culmine del terrore staliniano, tratto dal libro di Georgy Demidov, scienziato e prigioniero politico in URSS.

I colori sono metallici e terrei, come la prigione dove sono rinchiusi migliaia di detenuti politici in condizioni estreme di violenza e deprivazione.
Il film inizia sul condannato macilento obbligato a bruciare le lettere-suppliche inviate dai veri assertori ed esecutori della rivoluzione all’attenzione di Stalin “il buono” per essere liberati.

In quelle galere marcisce infatti la parte innocente del partito comunista, ormai distrutta dalla crescente burocrazia e dal potere diabolico, così lontano dagli ideali del ’17.
Eppure il giovane avvocato idealista crede all’onestà, esibisce a conferma la tessera di iscrizione al partito e si spinge fino al margine del pericolo per denunciare gli abusi. Il potere, lo stesso che impassibile dà corso alle purghe staliniane, lo ascolta in silenzio: non basteranno quelle suppliche scritte con il sangue che lui ha raccolto.
L’enorme prigione URSS, aiutata dalla polizia segreta, minaccia anche lui.

I tempi morti, i passi perduti dei comandanti della colonia penale, i giochi di attesa e distruzione dell’essere umano sono raccontati con mano ostinata. Una testimonianza che guarda all’oggi, alla Russia dell’invasione, del polonio, degli omicidi politici. Nessuna nostalgia, piuttosto vivida testimonianza.

Anche la sensualità, anche la vita intima, in questa Cannes così attenta ai sommovimenti sociali, si mescolano alle ambizioni di riscatto. L’attesa più calda qui sulla Croisette è per il film da regista dell’attrice di origine maghrebina, nata a Marsiglia, Hafsia Herzi, che tutti abbiamo scoperto, amato e desiderato in Cous Cous di Abdellatif Kechiche.

Il nuovo film si chiama La Petite Dernière, tratto dal romanzo dove la giovane Fatima (Nadia Melliti) svela la sua vita da mussulmana lesbica, tra senso di colpa religioso e conflitti aperti con l’universo cui appartiene.
Curiosità altissima, e Hafsia Herzi, ancora una volta, brucia le convenzioni e gli stereotipi, con tanto coraggio.

15 MAGGIO 2025, CANNES NUDE

il cast di dossier 137 a cannes 2025pinterest
Andreas Rentz
Il cast di Dossier 137 a Cannes 2025: Mathilde Riu, Côme Peronnet, Solàn Machado-Graner, Sandra Colombo, Dominik Moll, Mathilde Roehrich, Léa Drucker, Valentin Campagne e Theo Costa

La notizia che ha fatto subito moda è l’apparizione di Alba Rohrwacher, splendido abito nero e make-up (se c’era) assolutamente nude, con glow perfetto e un accenno di artistico rossore sulle gote, un tocco di blush e nient’altro, che ha incantato. Perfettamente in linea con il richiamo (spesso disatteso) alla sobrietà sul red carpet, con una luminosità minimal che ha fatto esplodere i commenti Social. Un debutto all’altezza del ruolo autorevole di giurata a Cannes.

Léa Drucker, protagonista discreta e potente del cinema politico a Cannes

Per naturalezza accentuata, resa ancor più affascinante da qualche ruga sottile, si distingue su tutte la donna del giorno, la francese Léa Drucker, protagonista del bel film di Dominik Moll in concorso Dossier 137, sempre nella linea ormai accertata del festival politico.

Léa è un’ispettrice della «polizia delle polizie», indaga sui colleghi che si sono resi autori di atti impropri o di violenza ingiustificata nel corso delle operazioni. Ruolo scomodo. Siamo nel 2019, all’epoca della rivolta dei Gilets Jaunes e durante gli scontri a Parigi un ragazzino finisce in gravi condizioni, incolpevole, per un colpo di flash ball sparato in testa.

Si indaga sui poliziotti, in particolare una brigata speciale, forse deviata, specializzata nell’antiterrorismo e nel contrasto ai più pericolosi nelle manifestazioni. L’atmosfera in quel periodo in Francia era tesissima, il film cerca le ragioni di ciascuno, ma il pezzo forte è l’indagine dell’ispettrice, donna divorziata con figlio, spettinata e indaffarata anche nei pedinamenti, neppure un filo di trucco, quella piccola macchia sotto l’occhio, l’imperfezione che si ama, tenace fino a scoprire la verità.

Il film è come lei semplice e diretto, con un finale emotivo fortissimo, mai ideologico, disilluso eppure umano fino alla contraddizione.
«Perché tutti odiano la polizia?» le chiede il figlio.
«E perché devi accusare i colleghi che si massacrano di lavoro tra manifestanti violenti?» le chiede l’ex marito, anche lui poliziotto alla Narcotici.

Léa, 53 anni, si conferma una delle grandi attrici francesi e svetta in un ruolo che non concede nulla al glamour, sottile e bellissima come lo sono le donne che non hanno tempo per curarsi ma portano nello sguardo verità ed energia.
Elogio, dunque, per Drucker.

A fare danni intanto ci pensano gli uomini
: uno dei protagonisti del film Dossier 137, Théo Navarro-Mussy, è stato escluso dalla Croisette perché accusato di violenza sessuale da tre donne. Qui non scherzano, l’effetto Depardieu ancora brucia. Il #metoo pure.

E poi c’è il caso JR, l’artista geniale quanto ego-riferito che avrebbe dovuto condurre l’attesissima masterclass di Robert De Niro con cui lavora a un progetto di documentario e, purtroppo, sul palco si è scordato che la star era Bob e non lui. Performance tanto concettuale, sostanza zero, De Niro quasi zittito. Pubblico abbastanza inferocito.

14 MAGGIO 2025, CANNES DISRUPTOR

robert de niro al festival di cannes durante la cerimonia in cui ha ricevuto la palma d'oro alla carrierapinterest
STEPHANE MAHE//Getty Images
Robert De Niro, Palma d'Oro alla carriera a Cannes 2025

Tacchi bassi, siate sobri, niente selfie, ma poi la partenza è bombastica, basta che De Niro, premiato da Leo DiCaprio, salga sul palco per ritirare la Palma d’Oro alla carriera, e un frisson attraversa il popolo di Cannes, tutti vestiti a festa pur cercando di non rompere le regole del nuovo stile da tempi bellici e di recessione, soprattutto, signora mia, niente strascico.

Sale Bob e dice qualcosa tipo così: “noi artisti siamo una minaccia per fascisti e autocrati di tutto il mondo”. Nello stesso momento in Italia 94 autori, più gentilmente, chiedono al Ministro della cultura di ascoltarli e incontrarli. La Settima arte ribolle, i tagli e quella certa indifferenza non piacciono, il potente Marché du film de Cannes freme: paura della recessione, della minaccia di Trump dei dazi ai 100% sui film girati all’estero, sempre meno denaro da investire ma anche la speranza di un altro Anora, l’anno scorso Palma d’oro e quattro Oscar. La Croisette è oggi il nuovo paradiso del cinema indipendente e della corsa all’Oscar, quindi tutti i compratori, pur squattrinati, alla ricerca del piccolo film che può fare il botto. Ne riparleremo.

Star ribelli, piccoli film e grandi sfide

Cannes da tempo ha adottato il termine inglese disruptors (e la rivista Deadline ne è la Bibbia, ndr) per indicare quei film, ma soprattutto le nuove e vecchie star, “disturbatori” della quiete, innovatori e soprattutto provocatori. La prima lista pervenuta segnala in testa Scarlett Johansson e Kristen Stewart, attesissime al loro debutto da registe con Eleanor the Great, dolori e felicità di una novantenne, e Chronology of water, corpi e sensualità femminili.

Li seguiremo questi guastatori day by day perché non ci piacciono le piste già battute, ma almeno alcuni nomi brillano già: l’attrice francese Antonia Desplat in The Phoenician Scheme di Wes Anderson, la thailandese Davika Hoorne, regina di The Useful Ghost alla settimana della critica, l’urticante presenza del rapper A$AP Rocky scampato a 25 anni di galera e protagonista nel film di Spike Lee, altro veteran disruptor.

Nulla a confronto di Julia Ducornau che travolse ogni schema cannense, universale e di genere con l’orrorifico Titane e che adesso torna con il film Alpha, e basta il titolo a dirci tutto dell’origine del mondo?

Vero disturbatore mai quieto, sempre dalla parte degli ultimi fu Laurent Cantet, morto troppo in fretta. Cannes e la Quinzaine gli rendono omaggio con Enzo, storia di classe tra grandi ricchi e un figlio che sogna di esser muratore contro ogni logica. Nel film, francese, c’è il nostro Pierfrancesco Favino, il film l’ha girato, su sceneggiatura di Cantet, il collaboratore e amico del cuore, Robin Campillo, che proprio da Laurent, già malato, ha ricevuto l’incarico di occuparsi della regia. Una bella storia che travalica anche quella del film. Perché è vita.

13 MAGGIO 2025, IN ARRIVO A CANNES

payal kapadia, alba rohrwacher, juliette binoche, halle berry e jury member, leïla slimani, le donne della giuria a cannes 2025pinterest
Pascal Le Segretain//Getty Images
Payal Kapadia, Alba Rohrwacher, Juliette Binoche, Halle Berry e Jury Member, Leïla Slimani, le donne della giuria a Cannes 2025

Apprendiamo l’ottima salute dei festival di cinema (tanti, 118, solo quelli ufficialmente riconosciuti in Italia) da una ricerca dettagliata dell’AFIC, l’Associazione che li governa. Da marzo 2024 a febbraio 2025, oltre 2 milioni le visioni di film con un aumento del 4% nonché un 60 % di spettatori tra i 15-34 anni. Dunque «pubblico giovane, genuinamente cinefilo, disposto a spostarsi per raggiungere la manifestazione di suo interesse». Si immagina che molti ragazzi, con pochi mezzi e molta passione migreranno verso questa edizione di Cannes, dal 13 al 24 maggio, dove già si annunciano titoli e autori da evidenziare in rosso.

L’Italia punta alla Palma con Martone, Golino ed Elodie

In concorso, attesissimo, il nuovo film di Mario Martone, Fuori, che incrocia i talenti fiammeggianti di Matilda De Angelis, Elodie e Valeria Golino nel ruolo di Goliarda Sapienza, la scrittrice che ha ispirato L’arte della gioia. All’origine c’è L’università di Rebibbia, un po’ Le mie prigioni di Goliarda che tra le sbarre finì davvero per furto di gioielli, ma proprio da quel fattaccio e dall’incontro vitale con due detenute, farà partire la sua seconda vita creativa. La Palma d’oro manca all’Italia dal 2001, quando vinse La stanza del figlio, chissà che non sia la volta buona. Sulla Croisette, a Un Certain Regard (dove troviamo anche Le città di pianura di Francesco Sossai) dovrebbero brillare Alessandro Borghi, Nadia Tereszkiewicz e John C. Reilly, tra Buffalo Bill e veri butteri, nel femminista Testa o croce di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis.

La giostra di Cannes

Celebrata la Palma onoraria a Robert De Niro e il ritorno dell’ennesimo Mission Impossible con Tom Cruise, sono certamente da seguire i veterani fratelli Dardenne con Jeunes mères, ambientato in una casa famiglia per ragazze madri mentre per gli adoratori degli autori-star e del red carpet domina il supercast di The Phoenician Scheme di Wes Anderson con Benicio del Toro, Tom Hanks, Bill Murray, Benedict Cumberbatch e Scarlett Johansson che ci riserverà anche la bella sorpresa dell’esordio alla regia con il suo Eleanor the Great. Registe in concorso al momento solo sei, ma potenti come Kelly Reichardt con il western The Mastermind e l’iconoclasta Julia Ducournau che due anni fa sconvolse Cannes con la Palma d’oro a Titane, e in Alpha racconta un’adolescente all’origine di grande caos grazie a un tatuaggio. Body horror e femminilità rischiose, temi che bruciano nell’aria, e già attirano attenzione, vedi Paul Mescal e Josh O’Connor con il mèlo gay The History of Sound e il trio fulminante Pedro Pascal, Joaquin Phoenix ed Emma Stone in Eddington di Ari Aster. Infine, momento di gloria per il cinema, e insieme gran timore di lesa maestà, ecco il film di Richard Linklater Nouvelle Vague che ricostruisce la lavorazione del film seminale di Jean-Luc Godard Fino all’ultimo respiro. E qui, davvero, trattenere il fiato.