«Volevo fare questo film da tutta la vita. A un certo punto, mi sono sentita finalmente abbastanza forte come regista e come donna per riuscire a farlo. Tendiamo a dimenticarci troppo in fretta delle persone che non ci sono più. Il cinema permette di abolire i confini tra chi c’è e chi non c’è più. I film li riportano con te». Così Francesca Comencini presenta Il tempo che ci vuole: innanzitutto un omaggio a suo papà, Luigi Comencini, maestro del cinema italiano.
E poi la storia di un rapporto padre-figlia che sa essere crudo, tenero, aspro. Una confidenza privata e interiore, con una forza universale. Un dialogo sempre affettuoso, ma pieno di confronti e di scontri. La regista racconta la sua crescita, la sua adolescenza e il passaggio all’età adulta attraverso liti rabbiose e sensi di colpa, mentre il padre la osserva e la ama, la lascia fallire. E poi fallire ancora, «fallire meglio».
«Ho scritto la sceneggiatura durante il lockdown, facendo emergere i ricordi che avevo. Per questo, il film è sia reale e autobiografico, sia fantasmagorico: come se in un teatro avessi messo un cono di luce solo su questi momenti che mi sono rimasti in testa per tutta la vita. Ricordo gli attimi dolorosi e poi quelli caotici, quando da bambina andavo sui set, pieni di gente e di energia»”.
Il papà è interpretato da Fabrizio Gifuni, mentre Francesca è Romana Maggiora Vergano (a sinistra insieme nel film), la splendida rivelazione di C’è ancora domani («Sono stati posseduti, sono attori sovrannaturali »). Sullo sfondo, passano alcuni eventi drammatici della Storia italiana: gli anni di piombo, il terrorismo. «Nella storia personale di ciascuno ci sono attimi che entrano nella propria formazione: fatti storici o di cronaca che sono giganteschi e che hanno un impatto traumatico a livello collettivo. La grande Storia diventa un po’ anche la tua storia, perché la nostra vita porta con sé connotati storici e politici».
E infine, c’è il tema della dipendenza da eroina. «Nel mio passato ho fatto grosse cazzate. Le scene che mi hanno riportato agli anni della droga sono state difficili e dolorose, perché avevo fatto tanta fatica a disfarmene. Sono i passaggi in cui il rapporto con mio padre diventa aspro e conflittuale. Il cinema ha salvato la vita di mio papà e la mia».
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