Se Pulp Fiction a 26 anni dal suo debutto (girato a fine 1993 viene presentato al Festival di Cannes del 1994 dove vince inaspettatamente la Palma d’Oro per poi uscire al cinema ad ottobre negli Stati Uniti e in Italia a dicembre ndr) continua a troneggiare nella categoria degli Untouchables, a persistere nella lista di quei film che il rewatch compulsivo nobilita riuscendo a far emergere in loop sfumature e spunti sempre nuovi, un motivo dovrà pur esserci. Anzi i motivi, sono praticamente infiniti (e li potremo ri-godere coi nostri occhi da maggio su Sky cinema). Se la cifra stilistica di Quentin Tarantino non si mette in discussione, il cast stellare nemmeno a dirlo (John Travolta, Bruce Willis, Christopher Walken, Harvey Keitel, Tim Roth e l’allora astro nascente Uma Thurman), a fare la differenza sul piano emotivo è l'empatia che non si può far a meno di provare per i suoi personaggi, così politicamente scorretti, così perfetti nella loro imperfezione, che riescono a tenerci letteralmente incatenati allo schermo. Dal punto di vista psicologico, come ci ha raccontato il Dottor Dario Grigoli, Collaboratore del Comitato di GuidaPsicologi.it, è proprio da ricercare nel meccanismo di proiezione la forza dirompente del plot narrativo di Pulp Fiction e dei suoi protagonisti (dal latino proicĕre, "gettare avanti" con proiezione si intende il processo di difesa messo in atto dall’Io che consiste nello spostare sentimenti o caratteristiche propri, o parti del Sé, su altri oggetti o persone ndr).
Tarantino: il film Pulp Fiction visto da uno psicologo
"Attraverso il film abbiamo la possibilità di liberare la parte più istintiva di noi stessi che socialmente e convenzionalmente teniamo a bada e che invece sullo schermo trova compimento in un'assurda armonia che però funziona", dice il dott. Grigoli, spiegando come sia naturale, psicologicamente parlando, provare trasporto e affezione nei confronti di personaggi controversi, "attraverso un meccanismo del tutto inconscio e innato ci troviamo a rispecchiarci nei personaggi e mettere in gioco in una sorta di teatro dell'immaginario le emozioni e i vissuti che causa la morale, causa l'etica, la politica nella vita reale non possiamo liberare in una maniera così pura e diretta, libera, istintiva e onesta". In pratica ci troviamo di fronte a personaggi folli ma così integrati e credibili nel loro contesto per cui è facile provare una forte immedesimazione emotiva, pedine a cui "possiamo far fare quello che la ragione normalmente ci spinge a non fare".
"In Pulp Fiction Tarantino arriva a legittimare gli istinti più arcaici come la vendetta e la violenza, per esempio facendo leva sul celebre e fittizio passo della Bibbia di Ezechiele tratto da Karate Kiba", continua Grigoli, ma non solo. "Il vissuto dei personaggi riesce a colpire i meccanismi inconsci più profondi che razionalmente governiamo e teniamo a bada", continua, sottolineando come "le loro gesta paradossalmente risultano in realtà equilibrate nel rispetto della loro scala di valori fondata sull'etica criminale". Dunque, la violenza, resa volontariamente così esasperata, viene accettata e digerita dallo spettatore, anche grazie all'accostamento rivoluzionario con citazionismo voyeuristico, dialoghi brillanti, leggeri, sempre in bilico tra surreale e grottesco, e momenti di inaspettata leggerezza come l'iconico ballo tra Mia Wallace e Vincent Vega sulle note della spensierata You never can tell di Chuck Berry.
"La violenza e la seduzione erotica sfiorata e inviolabile mostrata nell'incipit del film vengono esaltate da Tarantino giocando sull'aspetto shock e stuzzicando la dimensione profonda dell'istinto umano attraverso la crudezza con cui smonta ogni vincolo morale”, conclude il dott. Grigoli spiegando come poi "la scenografia, i colori e le musiche non fanno altro che rendere plateale questo slancio di liberazione dei propri istinti primordiali per arrivare dritto allo stomaco e al cuore".
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