C’era un tempo in cui bastava pronunciare “Capannina” per evocare non solo un locale, ma un intero modo di stare al mondo, tra una focaccia unta mangiata in costume da bagno e l’odore persistente della crema solare mischiata alla lacca per capelli. Un tempo in cui la spiaggia italiana non era ancora un set da Instagram ma piuttosto un palcoscenico sociale in cui qualsiasi ombrellone, pedalò o pareo svolazzante raccontava una storia.

La moda, nei lidi italiani, andava oltre l’estetica: era gesto, rito, affermazione, emancipazione – il linguaggio segreto dell’estate, un codice condiviso tra chi sapeva che agosto prima o poi sarebbe finito, ma che per quel breve tempo si poteva essere chiunque. Dimentichiamoci l’idea attuale di beachwear, fatta di palette neutre, loghi anonimi in sans serif e design minimalista. Il mare, in Italia, era un laboratorio di moda sfacciata, emotiva, espressiva. E l’estate, la stagione in cui si poteva – e si doveva – osare.



Quando la (moda da) spiaggia era uno stile di vita

Negli anni Sessanta, quando Sapore di Mare ancora non era un film ma una canzone appena nata e una sensazione collettiva, l’estate era un patto non scritto: la promessa che ogni anno, nello stesso stabilimento, si sarebbe finito per imbattersi di nuovo nelle stesse facce, negli amori sospesi, nella dolce malinconia di settembre. Forte dei Marmi, Rimini, Riccione, nomi che ancora oggi custodiscono quell’aura da cinema all’aperto, quando ogni lido era un piccolo teatro di provincia dove si recitava, inconsapevolmente, una parte nella grande commedia dell’Italia in crescita. Proprio in quegli anni, nel 1966, Giorgio Armani incontrava Sergio Galeotti a Forte dei Marmi: lui, milanese, futuro re del minimalismo, trovava in quella costa un’ispirazione ambigua e feconda, borghese e sensuale, sobria ma desiderosa di esibizione.

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Mondadori Portfolio//Getty Images
Marlene Dietrich alla Bussola, Viareggio, 1972

Mentre il Paese si affacciava al boom economico, la moda da spiaggia smetteva di essere una necessità e diventava una dichiarazione. Le riviste iniziavano a raccontare il costume da bagno come oggetto del desiderio: quelli interi in piqué di cotone con coppe rinforzate e spalline removibili erano ovunque, ma cominciavano a spuntare anche i primi due pezzi strutturati con culotte a vita alta e reggiseno a balconcino. Le mamme sfoggiavano il bikini per la prima volta, con l’ansia di chi sapeva di infrangere una regola ma con il sorriso fiero di chi lo faceva per sé. La silhouette non era mai troppo scoperta, ma nemmeno castigata: la sensualità era sussurrata, disegnata da tagli strategici più che dai centimetri di pelle a vista. I colori erano brillanti, a volte pastello, spesso a pois o a righe, in pieno stile Riviera. In spiaggia si portavano le camicie da uomo annodate sopra al seno, i prendisole a trapezio, gli occhiali grandi e i turbanti in spugna, le borse in paglia, i sandali a listini bassi: tutto contribuiva a definire il look da bagnante borghese, ben pettinata e sempre composta.

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Patty Pravo a Forte dei Marmi, 1971

Forte dei Marmi, Riccione, Viareggio: l’Italia in passerella

E, proprio nei piccoli gesti, la moda mostrava i primi segnali di emancipazione: una cerniera aperta sulla schiena, un pareo lasciato scivolare all’anca, un bikini indossato con disinvoltura da una ragazza che l’anno prima non avrebbe osato. Le boutique delle località marine offrivano modelli su misura e dettagli sartoriali anche per l’estate: le donne facevano cucire il costume sul proprio corpo, accorciavano gli orli dei vestiti da spiaggia, aggiungevano rouche, bottoncini, bordi in sangallo. Sulle spiagge più raffinate d’Italia si guardava a Brigitte Bardot, a Monica Vitti, a Virna Lisi, e si cercava di emularne l’eleganza rilassata: vestitini chemisier, pantaloni Capri, scamiciati a righe sottili. C’era ancora una certa ingenuità nel modo di vestire, ma anche una consapevolezza crescente, destinata a esplodere negli Anni ‘80. La Versilia era un luogo vivo e pulsante: la Passeggiata di Viareggio, le piazzette chic di Forte dei Marmi, i ristorantini d’élite di Pietrasanta, ogni luogo si trasformava nella passerella insieme più democratica e crudele della penisola, dove ogni corpo veniva osservato, ogni abito giudicato, ogni passo calibrato. La moda era un’arma: gli adolescenti si travestivano da grandi, rubando il look del padre con pantaloni chiari, mocassino e golfino sulle spalle, ma anche sfoggiando pezzi couture rubati con lo sguardo dalle vetrine di Versace, Armani, Ferrè, che spuntavano come miraggi lungo il lungomare.

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Sapore di Mare 2

La moda da spiaggia negli anni Ottanta: eccessi, colori fluo e voglia di esprimersi

In quel decennio, la moda balneare esplode: colori, forme, status symbol. Il costume si taglia alto sui fianchi, si infossa sulle spalle, si regge con laccetti sottili che disegnano un corpo scultoreo, atletico, più simile a un’icona pop che a una bagnante reale. Il monospalla prende piede, il trikini fa capolino per chi osa, i tessuti si fanno sintetici, brillanti, stretch; i colori diventano fluo, gli inserti metallici e le fantasie tropicali o animalier definiscono un’estetica orgogliosamente eccessiva. Le collezioni di Fiorucci, Roberta di Camerino, Krizia Mare o La Perla Beachwear riempiono le boutique di Capri, Portofino, Forte, Riccione. Le donne portano parei in seta stampata, caftani trasparenti, camicie da uomo oversize indossate come copricostume. Gli accessori non sono mai un dettaglio: collane di conchiglie, maxi orecchini a cerchio, bracciali in plexi trasparente, sandali glitterati, borsoni in canvas stampato con loghi giganteschi. L’estetica da lido si fa spettacolo. I corpi sono scolpiti, abbronzati artificialmente con l’autoabbronzante Lancaster o grazie alle ore sotto il sole senza protezione. I capelli si cotonano, si raccolgono con pinze colorate, si schiariscono col succo di limone. Le giacche bianche in lino, arrotolate sulle maniche come nei telefilm americani, si indossano anche sopra il costume, magari con una cintura in vita. I ragazzi sfoggiano bermuda in tela cerata e mocassini Tod’s senza calze, polo Ralph Lauren con il colletto alzato, Ray-Ban Wayfarer incollati alla faccia. E se sulle spiagge l’abito è già manifesto, lo è ancora di più per le donne. L’estate le libera: da Milano scendono in Versilia donne che per tutto l’anno indossavano tailleur come armature in un mondo maschile, e che finalmente potevano osare. E quale posto migliore per fare acquisti se non la mitica boutique Chelotti di Forte dei Marmi, dove si rivestivano anche Mina, Loredana Bertè, Renato Zero, la principessa Hariri? Non era solo una questione di stile: era un passaggio d’identità, un rito di affermazione. Le donne, al lido, imparavano a piacersi, a volersi. La moda non era più solo decorazione ma desiderio consapevole, conquista, linguaggio. E la spiaggia, più che un luogo di villeggiatura, diventava una passerella esistenziale.

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Ogni lido ha il suo stile: dal Grand Hotel al borsello freak

Ogni lido, poi, ha la sua grammatica: a Forte dei Marmi regna la sobrietà di lusso, tra bikini tinta unita, camicie in voile di cotone, sandali minimali, shopper Louis Vuitton; al Lido di Venezia resiste un’eleganza da Grand Hotel, con cappelli a tesa larga, abiti a pois, borsette rigide, bagnini in divisa e signore che si cambiavano dietro ai paraventi; in contemporanea; a Rimini esplode il pop, con body sgargianti, pantaloncini fluo, marsupi, sneakers colorate, occhiali specchiati, mentre in contemporanea a Riccione nasce la controcultura dei ragazzi del Columbus, gli eredi degli hippie che giravano in Vespa o macchine scassate con i capelli lunghi, il borsello a tracolla e l’adesivo del freak con la chitarra – una tribù diversa e alternativa, nutrita di afro, funk, disco: le magliette si toglievano per ballare, i jeans sdruciti raccontavano notti e appartenenze. Sì, perché, in passato più di oggi, la moda mare non è mai stata solo moda, ma infrastruttura sociale, una narrazione studiata ad hoc di chi eri, chi volevi essere, chi avresti potuto diventare.

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Massimo Ciavarro e Eleonora Giorgi a La Capannina sul set di Sapore di Mare 2

Moda mare come linguaggio del desiderio

I lidi stessi, con le loro tende a righe, le cabine colorate con i numeri scritti a mano, le sedie a sdraio consumate dal sale, erano scenografie pronte ad accogliere ogni trasformazione. Poi sono arrivati i beach club, le palette neutre, l’omologazione. E la nostalgia è diventata la forma più vera di resistenza: “Poi improvvisamente l’estate svaniva”, recita la voce in sottofondo di Sapore di mare (1982). E forse è lì, nel momento in cui tutto svanisce, che la moda dei lidi rivela la sua verità: non è mai stato il costume, non è mai stato l’accessorio. È sempre stato il tempo che scorre, e la voglia di fermarlo per un attimo, almeno finché il treno non parte e settembre non arriva. Ecco perché oggi, quando torniamo in quei luoghi, lo facciamo per ritrovare un’idea di noi, un modo di abitare il mondo che sapeva essere frivolo ma profondo, leggero ma carico di significato. Lo facciamo per ricordare che la moda, anche sotto il sole d’agosto, ha sempre parlato una lingua più grande dei vestiti: quella del desiderio. E quel desiderio, oggi più che mai, vale la pena rievocarlo.