Integerrima, acuta, vergine. Checché se ne dica, non ci sono prove che ricambiò il flirt dell’amico d’infanzia nonché cortigiano Robert Dudley il quale, nel luglio del 1575, la deliziò per 19 serate con show spettacolari tra musica, danza, acrobazie e teatro, nella cornice di quel Castello di Kenilworth che la stessa regina le aveva donato. Oggi alla liaison mai consumata tra Elisabetta I Tudor e il Conte di Leicester è dedicata un’installazione dell’artista Lindsey Mendick che è insieme omaggio a quella mitologica visita di 450 anni fa e riflessione sulla vicenda di una donna che la storia ha spesso raccontato in modo semplicistico e approssimativo. Un’opera temporanea, visitabile fino al 31 ottobre nella hall del castello del Werwickshire, che rilegge gli eventi da una prospettiva femminile, indagando pregi e difetti di una sovrana leggendaria, cristallizzata nell’immaginario comune tanto per le conquiste politiche e culturali, quanto per l’immagine di sé che con arguzia seppe creare. Sotto il suo regno il mondo scoprì il genio di William Shakespeare, l’Inghilterra batté l’Invincibile Armada spagnola troneggiando tra i grandi d’Europa e, soprattutto, conobbe la potenza della moda come linguaggio non verbale (anche se forse, ancora non lo sapeva).
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Altro che Lady Diana, altro che Principessa Margaret, la fashion icon ante-litteram della corona inglese fu proprio lei; la Regina Elisabetta I, la regnante cinquecentesca delle gorgiere a mo’ di lattuga, la figlia del peccato di Enrico VIII e Anna Bolena che, a tre anni, vide la madre decapitata per incesto, tradimento e stregoneria. L’evento traumatico non per dare colore ad una storia già appassionante di per sé, quanto più per raccontare l’infanzia di esclusione e privazioni che con tutta probabilità forgiò un guardaroba complesso quanto la stessa anima che servì a vestire, trattando gli abiti alla stregua di segni di status che legittimassero il suo ruolo di regina per diritto e volere divino, in barba a chi la credeva la bastarda non degna di.
Moda come arma di potere: il linguaggio visivo di Elisabetta I
Opulenza, rigidità e fantasmagoriche volumetrie furono in effetti la grammatica del suo vocabolario di stile, diffuso per gocciolamento a tutta la corte, dando smalto all’eleganza severa e formale d’influenza spagnola in voga prima del suo mandato. Alta e ossuta, si dice ereditò il tic per il glamour dal padre; uno charme corazzato, imponente, aggressivo nelle sue proporzioni immense e a tratti virile. Un’estetica votata alla causa del rafforzamento del proprio potere, utilizzata dalla regina per suscitare ammirazione nei sudditi, e chissà, forse anche per dissimulare un fisico esile dietro immense crinoline, gorgiere tesissime e maniche grandiose tanto quanto la monarchia Tudor. Per dare conto del fascino che il suo vestire ricco e pomposo esercitò già sui contemporanei di Elisabetta I, basti pensare che parte del suo guardaroba venne esposto nella Torre di Londra al fine di impressionare i visitatori stranieri e la sua collezione, che pare arrivasse a contare oltre duemila abiti, contribuì all’idealizzazione a divinità che di lei fece il suo popolo.
L’iconografia dell’abito elisabettiano
Diademi ad illuminare la capigliatura ramata, gorgiere guarnite di trine lussuosissime, corsetti stretti in vita con scollature a cuore o squadrate, maniche rigonfie e ricamate a profusione, gonne galattiche e mantelle guarnite di pelliccia, furono in effetti la sua divisa d’ordinanza, i segni su stoffa di un temperamento astuto e spregiudicato, la sartoria per niente leziosa di una forza politica indipendente e potentissima che si fregiò di sete, velluti, broccati e damascati illuminati da una polvere perlacea che la avvolse di un alone misterioso e incorruttibile. Poiché nel brulicare di gioielli, la predilezione di Elisabetta I era soprattutto a quelle perle indossate in lunghi fili attorno al collo, a goccia o a grana di riso, come vessillo paradigmatico di una regina vergine che antepose l’interesse del suo paese alla propria felicità. E non è un caso che tra le sue tinte privilegiate ci fosse proprio il virginale e puro bianco, rimpiazzato alle volte da un nero simboleggiante forza e dignità, in un uso oculato della palette di chi conosceva alla perfezione la semiotica che si cela(va) dietro ogni colore. C’è infatti un celebre ritratto di Elisabetta I – The Rainbow Portrait, del 1600 circa e attribuito a Isaac Oliver – che la vede raffigurata con una veste fitta di occhi e orecchie a rappresentare la potenza di una sovrana che tutto vede e sente, un serpente con nelle fauci un rubino a forma di cuore ricamato sulla manica come segno di fama e saggezza, e un arcobaleno stretto tra le dita in un possibile gancio agli ideali celesti della sovrana. Mentre per saggiare come in epoca elisabettiana, il corpo femminile raggiunse l’apogeo della mistificazione di linee e proporzioni, c’è sempre il dipinto che di lei fece nel 1592 Marcus Gheeraerts, Elisabetta I in verdugale a tamburo dilatato orizzontalmente, immobilizzata dal collo in giù sotto il peso di un esuberante colletto in pizzo e una veste da chissà quanti chili.
Algida e perfetta, il viso imbellettato da una polvere biancastra poi utile a camuffare cicatrici del vaiolo e segni di invecchiamento, l’abito quasi a risultare una maschera che ne dissimulasse la versa natura. Fisica e non solo. La moda di una sovrana che, con lungimiranza, aveva fatto dell’abito l’artificio lussuoso con cui mostrarsi al mondo, paludata in una perfezione impossibile che, negli anni, ha affascinato più un di un designer basti pensare ad Alexander McQueen o al suo braccio destro Sarah Burton che, nel 2023, aveva salutato la maison con una collezione “ispirata all'anatomia femminile, alla Regina Elisabetta I, alla rosa rosso sangue e a Magdalena Abakanowicz, un'artista trasgressiva e fortemente creativa che si è rifiutata di scendere a compromessi con la sua visione”. Merito degli splendori rinascimentali della più celebre dei Tudor. Della prima, vera fashion icon della corona inglese descritta dai poeti dell’epoca “lucente come una stella e coperta di gioielli”, secondo il travestitismo di una donna che seppe sfruttare l’immenso e affascinante potere comunicativo degli abiti.