“Copia della copia delle idee”, così recitava un maglione disegnato da Alessandro Michele per Gucci nel 2018. A metà tra statement, provocazione e forse una sana dose di autoironia (perché, in fondo, Michele non è mai stato immune alla tentazione di ripescare nel passato), il messaggio sembrava farsi carico di una consapevolezza già latente: quella di un’industria che, nel disperato tentativo di sembrare nuova, si è rifugiata nel già visto. Non era ancora il tempo dell’AI generativa, delle moodboard ubique create per la minima frazione di estetica o del loop infinito dei trend TikTok, e oggi quel maglione suona quasi come una profezia perché la moda contemporanea, che dovrebbe tradurre lo spirito del tempo in forma e materia, sembra invece parlare un linguaggio fatto di fantasmi, echi, campionamenti. Guardare una sfilata è spesso come scorrere un archivio digitalizzato: non si tratta più di citazioni, ma di interi repertori; non ispirazioni, ma revival a circuito chiuso. Eppure il vero problema è quando la moda incontra la cultura pop.
Gli esempi più lampanti di questo fenomeno, infatti, vengono dall’intrattenimento: ormai da almeno un decennio viviamo di continui reboot, spin-off e sequel strapazzati pur di tirare l’acqua al proprio mulino. Tra film, serie tv, perfino spot pubblicitari, ogni “novità” è studiata per riportarci alla mente un ricordo già sedimentato: pensiamo ai sequel di Una Mamma per Amica o Sex and The City, al tanto discusso reboot di Harry Potter in arrivo (si presume) il prossimo anno, alle serie spin-off di grossi franchising come Il Signore degli Anelli e Game of Thrones. Non solo: al cinema si adattano musical (come Wicked), si immaginano prequel (come in Wonka), si ripescano persino i giocattoli dell’infanzia (come in Barbie) per rivolgersi a più generazioni possibile – per non aprire poi il capitolo Disney, che praticamente oggi vive solo di adattamenti live-action malriusciti e spin-off dalla scarsa inventiva. L’effetto nostalgia è così dilagante che tutto diventa un rimando, anche le pubblicità: l’anno scorso Rachel Bilson è tornata a vestire i panni di Summer Roberts, il suo iconico personaggio in The OC, per una serie di spot di 21Seeds Tequila. Non riusciamo proprio a lasciare la novità di ieri nel passato, dobbiamo spolparla fino all’osso, riadattarla, risemantizzarla secondo i valori e l’agenda di oggi, come se non fossimo più in grado di creare qualcosa di nuovo.
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Il red carpet e il culto dell’omaggio
Questo movimento, ormai fuori controllo, ha un impatto fortissimo sulla moda. A volte passa in sordina, perché la moda da sempre è carica di citazioni e collage provenienti da forme d’arte diverse, ma forse dovremmo iniziare a tracciare un limite tra rivisitazione creativa e pigro citazionismo – che, purtroppo, è quello che si vede di più in giro. Ormai siamo così abituati a lanciarci in sviolinate per ogni celebrity che ripropone sul red carpet con un look che ha segnato un qualche momento storico nell’immaginario pop, lasciandoci trasportare indietro nel tempo, magari al nostro ricordo dell’originale vissuto in prima persona, che non riusciamo più a distinguere la vera funzione – e le conseguenze sul piano creativo di un’intera industria – di quelli che ci siamo abituati a chiamare “omaggi”. Quante volte avete rivisto sul tappeto rosso il celeberrimo look total denim sfoggiato da Britney Spears e Justin Timberlake agli American Music Awards 2001? Katy Perry sembra avere un'ossessione con questo momento, tanto da averlo ricreato sia nel 2014 con il fidanzato dell’epoca agli MTV VMAs, che nel 2022 ai Country Music Awards, ma omaggiare Britney è uno degli sport preferiti delle celbs: da Olivia Rodrigo nello stesso abito di Cavalli nel videoclip di Brutal a Kourtney Kardashian in abito di pizzo nero Dolce & Gabbana come la cantante nel 2001, passando per Ariana Grande a The Voice, la regina del pop Y2K è una delle star più copiate di sempre. Parlando invece di abiti iconici, come non ricordare il Jungle dress di Versace, indossato da Amber Valletta in passerella, poi da Donatella stessa, da Geri Halliwell e poi reso celebre da Jennifer Lopez ai Grammys nel 2000: lei stessa, nel corso degli anni, l’ha indossato di nuovo più volte, in un autocitazionismo che è molto emblematico di questo momento. E, più in generale, ripescare gli abiti d’archivio sul red carpet è una tendenza che abbiamo visto prendere sempre più piede negli ultimi anni: Gwyneth Paltrow si è calata più volte in look che aveva già indossato anni prima, Zendaya è una grandissima fan del ricreare alcuni dei momenti più iconici delle passerelle passate – dall’abito bianco e nero di Valentino che nel 1992 sfilò su Linda Evangelista all’indimenticabile tuta metallica di Mugler AI95 –, anche Dua Lipa è amante del vintage d’autore – uno dei suoi look più belli resta l’abito da sposa di Chanel indossato al Met Gala 2023, presentato negli Anni 90 su Claudia Schiffer.
Finché si tratta di autocitarsi o ricontestualizzare un look da sfilata indimenticabile, il dialogo con il passato rimane ancora aperto e relativamente stimolante. Il problema è quando le celebrità (e tutto l’apparato di marketing che si muove con loro) ricreano veri e propri momenti pop indelebili – o, addirittura, plasmano intorno a essi tutta la loro immagine. Un esempio recente ed eclatante è quello di Sabrina Carpenter. La sua estetica glossy da Betty Boop in versione carta da zucchero quasi sempre riprende dal passato in maniera sfacciata: l’abito di JW Anderson indossato Grammys 2025 è un riferimento a quello che Shirley McLaine portava nel film What a Way to Go! del 1964, più di una volta ha rievocato Brigitte Bardot in modo tutt’altro che sottile – in rosso con codini e aria naïf, in nero con i capelli tirati indietro dalla fascia, perfino in uno shooting seduta per terra a gambe incrociate con carte sparse davanti da lei –, ha più volte replicato pari pari i look de La Tata, poi ancora l’abito giallo in seta di Kate Hudson nella storica romcom anni 2000 Come farsi lasciare in 10 giorni.
La sua fonte d’ispirazione principale è Madonna: in più occasioni ha ripreso fedelmente i look della cantante, dall’abito di Bob Mackie indossato ai VMAs nel 1999 a un editoriale (e copertina) di Vogue dove compare proprio nei panni di Madonna – voluminosa acconciatura ossigenata, abiti-lingerie e tutto il resto. La lista di reference potrebbe continuare all’infinito, ogni sua uscita pubblica, ogni shooting per magazine o album che sia, è una citazione, tanto che il fattore nostalgia è ormai parte integrante della sua identità estetica – ma se la tua intera immagine non è altro che il collage di chi ti ha preceduto, fino a che punto si può parlare davvero di identità?
Il cortocircuito creativo della nostalgia
Eppure, funziona. Funziona perché tutti amiamo qualsiasi richiamo nostalgico, perché, soprattutto se proviene dagli Anni 90 e 2000, come la maggior parte delle citazioni di oggi nella moda, il rimando si collega direttamente al nostro subconscio, ci riporta a tempi più semplici o più felici o semplicemente in cui tutto ci sembrava più stimolante a livello creativo – e, proprio qui si crea il cortocircuito. Come restaurare la novità nel contemporaneo, quando l’unico modo in cui sembra di poterla ritrovare è guardando al passato? E anche questo, di per sé, non sarebbe sbagliato: l’arte è da sempre un patchwork di ispirazioni provenienti dai luoghi più disparati. Perfino David Bowie, uno degli artisti più innovativi di sempre, si rifaceva alla tecnica dadaista del cut-up resa celebre dallo scrittore beat William S. Burroughs – altro innovatore nel suo genere – che consisteva nel fare un collage di espressioni e parole prese da altri testi per creare qualcosa di radicalmente nuovo. Il problema, oggi, soprattutto nell’intrattenimento e nella moda è la mancanza di quello sforzo in più per lasciare la citazione come punto di partenza e poi espandere, innovare. Ma perché prendersi la briga di reinterpretare se il mero copia e incolla funziona così bene? D’altronde, è una tecnica di marketing perfetta: l’omaggio, la citazione, generano sempre una discussione social, rimbalzano sempre tra una testata e l’altra, alimentano il discorso pubblico e magari il gioco di repost su Instagram tra omaggiante e omaggiato – creando una risonanza che va sempre a beneficio della celebrity coinvolta, del brand che la rappresenta, del magazine che ha commissionato il servizio. Insomma, è un modo (piuttosto pigro) di vincere facile e di capitalizzare su qualcosa che si sa per certo che avrà successo, perché è già esistito: una copertina che ricrei quella iconica di Rolling Stone con John Lennon e Yoko Ono qui, una T-shirt con slogan “I told ya” che passa tra un John F. Kennedy e una Zendaya lì, un remake di un remake di un remake e si gioca sul sicuro. Qualcuno ne parlerà, qualcosa (un album, un film, una borsa) si venderà – che alla fine è tutto quello che conta.
L’industria ha smesso di rischiare?
E, lungi da me definire opera d’arte la copertina di Paper firmata Jean-Paul Goude con Kim Kardashian che si versa champagne in un bicchiere appoggiato sul suo fondoschiena nel 2014, ma è innegabile che (oltre) dieci anni fa le cose fossero ben diverse: i richiami erano più sporadici e, nel bene e nel male, la moda sembrava ancora in grado di creare momenti pop senza precedenti, senza preoccuparsi di risultare sfacciata, controversa, spiazzante. La cosa positiva è che online finalmente si inizia ad avvertire un senso di noia generale verso tutto quello che suona come già troppo visto e sentito, ma scendere dalla ruota del capitalismo e del marketing spicciolo per rischiare è difficile, soprattutto quando sono le grandi corporazioni dietro le tendenze di massa a decidere cosa deve piacerci e cosa non rientra neanche nel range delle possibilità.