Fosse bravo – nel senso di originale pur senza bizze, nel senso di discreto evitando di annoiare mortalmente, e anzi raccontando ben oltre borsette e vestiti – si sapeva. Matthieu Blazy è relativamente giovane, o meglio, la sua fama lo è, eppure la sua grande capacità di trasfigurare la banalità di una canotta e un paio jeans (per dirne una), in un capolavoro di alto artigianato ha dimostrato la sua stoffa dal giorno uno al timone di Bottega Veneta. “L'idea era di riportare l'energia, una silhouette che esprimesse davvero il movimento, perché Bottega è un'azienda di borse, quindi si va da qualche parte, non si resta a casa. Questa collezione è fondamentalmente un viaggio”, raccontò alla stampa per legittimare quei pantaloni dall’orlo svasato, quelle gonne fru fru che sublimavano le crinoline con frange in pelle, o quegli stivaloni over-the-knee da gatta lussuosissima eppure tutt’altro che dimessa, del suo défilé di debutto nella maison italiana. Chi parlò di minimalismo o quiet luxury non aveva ben fatto i conti con la poetica Blazy che rifuggiva (e rifuggirà?) la sfacciataggine di loghi e barocchismi, ma non quella di una visione votata all’eccellenza che si fa ammirare semplicemente per quello che è: un lusso come “qualcosa che si senta prima ancora che vedersi”, come chiosò lui stesso una volta. Un’estetica eclettica e mai esagerata; colta, intrigante e priva di scadenza che ha piegato la pelle a divertissement mai sterili, ampliando la grammatica artigianale di Bottega Veneta a colpi di una sottrazione apparente che raccontava molto del retaggio stesso dello stilista.
Franco-belga e nato a Parigi nel 1984 da un padre esperto d’arte e da una madre studiosa di storia, Blazy respirò sin da ragazzino quell’arte con cui poi ibriderà spesso le scenografie di show e boutique Bottega Veneta. Studiò all’Ecole Nationale Supérieure des Arts Visuels de La Cambre a Bruxelles e, ancora studente, ebbe l’opportunità di un tirocinio in seno al Balenciaga di Nicolas Ghesquière. Fu però l’ITS Contest – non vinto – ad attirare l’attenzione di Raf Simons che lo volle al lavoro con lui. Seguirono poi l’approdo da Maison Margiela nel team del womenswear e della linea Artisanal, quello da Céline accentato di Phoebe Philo e ancora un periodo da Calvin Klein, di nuovo a fianco di Simons. Fu nel 2020 che Blazy si unì a Bottega Veneta, prima in veste di direttore del design e braccio destro dell’allora guida Daniel Lee e, in seguito all’abbandono dello stilista inglese, come direttore creativo della griffe dell’Intrecciato. E se si pensava che nessuno potesse bissare il successo di Lee in seno alla maison vicentina, ci si sbagliava, poiché il designer franco-belga, forte di una carriera di prestigio nelle retrovie delle pedane della moda, tagliò col passato senza troppe riverenze rendendo Bottega Veneta quell’astro dalle sinfonie al profumo di pelle che è oggi. Riuscirà il talento Blazy a replicare la formula alla guida del trono del lusso di Francia?
Da Chanel arriva il genio creativo di Matthieu Blazy
Del resto, quando assunse l’incarico nel 1983, anche il mercenario della moda Karl “Kaiser” Lagerfeld non era ancora quel one man show che poi avremmo conosciuto e che avrebbe soprattutto trasfigurato la maison della doppia C da griffe alto-borghese e assai stanca, a fenomeno del lusso globale che è a tutti gli effetti un pezzetto di cultura pop. Le gole profonde della moda – vedi Lauren Sherman con la sua newsletter Puck – parlano di mesi di colloqui di Blazy chez Rue Cambon, condotti con una tenacia e una grande discrezione che avrebbero colpito i signori Wertheimer a capo di Chanel. E allora oggi, dopo settimane di insistenti pettegolezzi, la notizia trova conferma e Matthieu Blazy è il nuovo direttore artistico di Chanel, arrivato dribblando (a quanto pare) una concorrenza che nei mesi ha fatto i nomi di Simon Porte Jacquemus, o Hedi Slimane arrivando addirittura all’auto-candidatura di Marc Jacobs, ma che ha visto oggi trionfare il designer dell’(extra)ordinario per cui, va da sé, inizia già quella spasmodica attesa per conoscere l’estetica con cui forgerà il vocabolario della maison fondata da Coco.
Come interpreterà Blazy – designer della sublime sottrazione – l’ingombrante iconografia Chanel fatta (anche) di camelie, tweed, bijoux, C intrecciate, scarpette bicolori e matelassé? Riuscirà nell’impresa di (ri)dare tono ad una infiacchita maison che necessita di qualcuno che perpetui il verbo di Lagerfeld che, lontanissimo da ogni forma di esagerato rispetto, prese i codici Chanel piegandoli al suo genio? Le premesse ci sono tutte, poiché il suo talento rivoluzionario e non bizzoso, gioioso ma non sfacciato, avido di intrecci culturali mai mirati allo sfoggio di guardaroba sterilmente intellettuali, ha dimostrato come si possa dare un poetico senso a quel lusso dalle cifre folli che spesso oggi un senso non ce l’ha. Ha palesato come lo stile possa avere a che fare con la qualità senza tuttavia risultare stucchevole, quanto più una melodia di note intriganti ed eterne. Ovvero ciò di cui Chanel, con il suo pesante e appesantito retaggio estetico, avrebbe necessità.