“Le imposizioni sono bandite, quello che usava l’anno scorso, se ti piace, si userà anche quest’anno o l’anno prossimo. Se ti senti più felice con un vestito scomodo, o con scarpe belle ma strette fai pure; se sei fashion victim e vuoi essere rassicurata dalle firme, fai pure; se credi di aver buon gusto e non ce l’hai, continua come vuoi tu […]. Sono come un ristorante che cerca di fare bene dei piatti classici già inventati da chissà quale cuoco”. Se c’è uno stilista che ho il cruccio di non aver conosciuto, quello è Franco Moschino; l’irriverente della moda, il citazionista del prêt-à-porter che saccheggiò a piene mani da storia dell’arte e del costume, il colto travestito da burlone che conciliò l’inconciliabile, in remix al limite del comico. “Can tacky bright chicken?”, si chiedeva una mitologica réclame che, scimmiottando il nome di una nota catena di fast food, suggeriva di darsi al pacchiano di un cappello gallinaceo come fatto dalla lady alto-borghese dell’ADV. Smitizzare i cosiddetti cult della moda, così come certi cliché sull’italianità, era del resto qualcosa che gli riusciva benissimo, come quando appaiò la Monna Lisa, ossia A very famous Italian signora, a strilli e titoli della Gazzetta dello Sport trasfigurata, con un impareggiabile colpo di genio, in giacca per la Ragazzetta dello sport, o come quando prese il tailleurino bouclé di Chanel – anche lui, feticcio di un certo tipo di bon ton – e rimpiazzò i bottoni con girandole (o posate). Un amabile kaos di un disegnatore provetto, nonché sopraffino comunicatore, dove tra giacche costruite a puntino e provocazioni stampate tra virgolette; “Ogni richiamo culturale subisce il contraccolpo all’ingiù, con il gioco sempre più al ribasso quanto più nobile e auratico appare il modello culturale di appartenenza”, come scrisse Fabriano Fabbri in L’orizzonte degli eventi.
Con la sua giocosità mai sterile, azzeccò anzitempo un tot di temi su cui ci arrabattiamo ancora oggi: l’inclusione, il lusso, la cieca sudditanza a voghe e trend, la sostenibilità schedulata nel suo ultimo défilé del ‘94 a ritmo di claim Ecology now, Ecology wow. Franco Moschino moriva trent’anni fa e chissà con quale sartoriale diavoleria si sarebbe divertito a mettere in discussione una moda – tutta, ad ogni sfera e in ogni declinazione professionale – al soldo di conglomerati del lusso per cui sogni e aspirazioni sono minuzie da piegare a strategie di marketing. Lui che si auto-sbeffeggiò chiamandosi Moschifo (oggi, un’imperdibile galleria IG di moschiniane opere), lui che fu stilista e pubblicitario, pittore e filosofo a costruire in soli dieci anni una griffe che è un mito ad ispirare ancora oggi generazioni di creativi.
Franco Moschino. Il genio visionario. Alla MyOwnGallery una serie di scatti per leggere il talento di una leggenda del made in Italy
A ricordarne il feroce estro a trent’anni dalla sua scomparsa, arriva oggi la mostra Franco Moschino. Il genio visionario che, patrocinata dal Comune di Milano e curata da Pier Paolo Pitacco e Giuseppe Mastromatteo, offrirà un’esperienza immersiva nell’universo immaginifico di Moschino, attraverso le iconiche fotografie di Stefano Pandini a cristallizzare la visione ironica e provocatoria dello stilista di Abbiategrasso. Gigantografie e stampe fine art racconteranno la storia di un creativo che seppe innestare costume, arte e comunicazione, creando e distruggendo, inserendosi nel sistema moda e al tempo stesso contestandolo, in un processo creativo solo in apparenza contraddittorio.
L’esibizione – in cartellone dal 22 novembre al 19 dicembre alla MyOwnGallery di Superstudio Più, a Milano – è stata fortemente voluta e prodotta dall'Art Directors Club Italiano che ha tra l’altro insignito Moschino del prestigioso premio Hall of Legends 2024, in omaggio a quella pionieristica avventura che con un linguaggio new dada carico di humor seppe confezionare un prêt-à-porter che avrebbe ancora oggi molto da raccontare. Oltre agli scatti d’archivio dello stilista poi, la mostra presenterà video-interviste con importanti personaggi della cultura pop degli anni Ottanta e Novanta, tra i quali il filosofo Gianni Mereghetti, lo stilista Massimo Foroni, il musicista Manuel Agnelli, l’ex direttore artistico di Vogue Italia Luca Stoppini, la modella Violeta Sanchez e lo stesso Stefano Pandini, creando un vivace dialogo attorno alla figura di Franco Moschino.
Infine, oltre ad un corner che esporrà alcune opere dello stilista parte della collezione privata di Stefano Pandini, un progetto che, probabilmente, l’enfant terrible della moda italiana avrebbe apprezzato; ossia i lavori selezionati tramite un contest internazionale degli Alumni di Istituto Marangoni, a reinterpretare l'essenza anticonformista di Moschino con video, concept artistici, abiti, accessori e grafiche di sorprendente audacia. Per collezionisti e appassionati dell’opera moschiniana invece, in galleria sarà possibile acquistare una delle cento copie – firmate da Pandini – del libro fotografico Iconoclasta, il cui ricavato sarà totalmente devoluto all'Hospice di Abbiategrasso, sostenuto dalla Fondazione Moschino, a favore dei malati terminali. Già, poiché in mezzo ai trompe-l’œil, le t-shirt stampate, le balze da flamenco, i cappelli da cowboy, le sfilate-evento e le ADV taglienti, Moschino era anche questo e quando già ammalato, inaugurò una fondazione impegnata ad alleviare le pene dei malati terminali.
“Quando disegno non penso a una donna ideale o alle future clienti. Penso a fare abiti che mi piacciono. Se guardo i dati di vendita lo faccio solo per divertimento o per vedere quali stupidaggini dicono sul mio conto”. Ah, quanto ci manca…