“Non esiste una fantasia maculata che non mi piaccia”, raccontava Diana Vreeland nelle sue memorie e, in effetti, coerentemente alla propria passione sauvage, negli anni Sessanta arrivò addirittura a tappezzare di velli leopardati l’intero suo ufficio alla Condé Nast, sostenendo che il tutto era in fondo assai poco esotico. Gli antichi greci lo chiamavano zoote, oggi invece è universalmente conosciuto con il termine di “animalier” ma il succo non cambia, ed entrambe le espressioni indicano quell’ampissimo atlante di stampe a mimare il manto di fiere più o meno selvagge. Leopardi, tigri, zebre e pitoni che affascinano la moda da tempo immemore, tant’è che di loro- in guisa di pelli avvolte attorno al corpo, cappotti, abiti o addirittura calze- si trova traccia nelle rappresentazioni parietali, pittoriche o scultoree, dall’antichità all’epoca moderna. Senza voler allargare di troppo la faccenda, vi basti pensare che sfoggiavano maculato i sacerdoti egizi, per cui la stampa aveva una valenza spirituale, riconducibile alla sacralità dei felini, così come gli antichi greci che nel vello di animali veloci e potenti scorgevano un feticcio di dominazione e privilegio. Per la verità è un po’ colpa loro se ancora oggi l’animalier mantiene quel côté squisitamente peccaminoso che nessun’altra stampa possiede, in quanto furono proprio loro a connettere l’immaginario animale su stoffa a quel culto dionisiaco che è sinonimo di ebbrezza e lussuria. E difatti le ragazze così vestite, nel bacchettone Medioevo che mirava a sradicare eresia e culti pagani, com’è noto non se la passavano granché bene.

storia dell'animalier nella modapinterest
Buyenlarge//Getty Images
Jean Marc Nattier, Madame de Maison Rogue come Diana, 1756

Tutt’altra aurea possedevano invece le nobildonne settecentesche- tipo la Madame de Maison Rogue ritratta da Jean Marc Nattier in veste di Diana- per cui le pellicce maculate erano un’esplicita dichiarazione di agiatezza sociale, nonché simbolo di una sensualità predace che consacrò l’animalier ad una prima fama. Facendo un balzo in avanti di due secoli, impossibile non pensare al pittore, scenografo e costumista Erté che ipotizzò addirittura una voluttuosa Giulietta in total look animalier, affascinando le donne parigine più in vista del tempo, tra cui Sarah Bernhardt che, un po’ come la Vreeland, aveva tappezzato il suo studio parigino di pelli leopardate, o la marchesa Casati che Leon Baskt tratteggiò con ghepardi al guinzaglio e Jean Cocteau definì come “il più bel serpente del paradiso terrestre”.

Impossibile poi, nei primi del Novecento, non citare la ballerina afro-americana Joséphine Baker che, oltre ad indossare con nonchalance vistose piume di pavone, era solita passeggiare per le strade di Parigi in compagnia del suo leopardo Chiquita. Insomma; perennemente teso tra necessità e vezzo, sfoggio di potere o estro ruggente, l’animalier ha accompagnato la storia del costume per millenni, rimanendo appannaggio di sacerdoti, condottieri, nobili e artisti fino al giorno in cui, un signore che di mestiere faceva il sarto, non decise di introdurlo in una passerella couture…

Da Dior a Valentino: la stampa animalier sfila in passerella

Parigi, 12 febbraio 1947. Un rendez-vous di dame ben vestite assiste alla nascita del New Look, inconsapevole(?) che nei saloni di avenue Montaigne sta andando in scena un altro fatto storico: l’istituzionalizzazione dell’animalier nella moda. Christian Dior, a braccetto con il produttore di seta Bianchini-Férier, sviluppa un esclusivo chiffon stampato a macchie di leopardo con cui confeziona il trench Jungle e l’abito Africaine, forgiando quell’imprimé panthère che diventerà uno dei principali codici di riconoscimento della maison, sdoganando l’ispirazione faunistica all’interno del costume. È uno schiaffo- tanto quanto la silhouette Corolle- ai rigori del secondo conflitto mondiale, che conquista le signore della buona società che eleggono l’animalier a fantasia prediletta, indice su stoffa delle loro sfarzose abitudini di vita.

storia dell'animalier nella modapinterest
Lipnitzki//Getty Images
La cantante d’opera Denise Duval indossa un abito di Christian Dior con stola imprimé panthère

Qui il tutto ha un tratto sì provocante, ma comunque bon ton, niente a che vedere con i sottintesi da panterona sexy con cui si dilettava, più o meno nello stesso periodo, una spigliata Bettie Page ritratta come Tarzan in quel della giungla. No; il maculato di Monsieur Dior, audace senza essere osé, è quello che dà il là ad alcune mise iconiche degli anni Cinquanta; vedi il delizioso cappello (by Givenchy) indossato da Audrey Hepburn in Sciarada, vedi le tenute chic di Jackie Kennedy signée Oleg Cassini, o i mantelli e i manicotti di una raffinata Marilyn Monroe ne Gli uomini preferiscono le bionde.

storia dell'animalier nella modapinterest
Bettmann//Getty Images
Marilyn Monroe durante le riprese de Gli uomini preferiscono le bionde, 1953

Ma guai a pensare che l’animalier si deturpi del tutto della sua valenza trasgressiva, come ci ricorda negli anni Sessanta la valchiria Veruschka, dominatrice di leopardi per Franco Rubartelli, o l’icona glamrock dei Settanta/ Ottanta Debbie Harry, che si fascia di jumpsuit graffianti tanto nei servizi per le riviste, quanto sul palco. Nel frattempo- il 26 dicembre del 1987- un altro couturier finisce sulle pagine del Toronto Star con l’appellativo di “Re della giungla della moda”.

È Valentino che viene così etichettato per la costante ispirazione al tema dell’animalier e che, probabilmente, è complice nel pavimentare la via ad un altro grande numero di stilisti che, negli anni Novanta, saccheggeranno a mani basse dall’immaginario sauvage.

Tra Versace, Alaïa, Cavalli e Dolce & Gabbana: l’animalier dagli anni Novanta a oggi

Il primo a cambiare rotta, e cioè ad introdurlo (anche) nel guardaroba di lui, è Gianni Versace che coerentemente alla sua attitudine sfrontata, sexy e libidinosa, amplia l’orizzonte dell’animalier, contaminando in modo provocatorio e anticonformista il dress code maschile, finalmente risvegliato dal centenario sonno borghese. E poi certo, lo stilista italiano continua ad inserirlo anche nel prêt-à-porter femminile, si veda il sensazionale abito da sera che accosta tigrato, leopardo e raso vermiglio della passerella Autunno Inverno del ’90 ’91, o le ben più popolari macchie feline combinate ai riccioli rococò che compaiono sugli abiti sottoveste tagliati in sbieco, nella passerella primaverile dell’anno successivo.

Ma chi (ri)consacra l’animalier all’altare della moda è senza dubbio Azzedine Alaïa che negli anni Novanta produce un ruggente tableau vivant di super top maculate, alla faccia di chi sostiene che la macchia animale vada dosata con cura. Tra questi, non vi è di certo Roberto Cavalli, indiscusso re contemporaneo dell’immaginario jungle, per cui l’animal print non è un saltuario vezzo, bensì una costante wild dall’appeal grintoso e trasgressivo, epitome di glamour e self-empowerment.

storia dell'animalier nella modapinterest
Karl Prouse/Catwalking//Getty Images
Un look della Primavera Estate 2007 di Roberto Cavalli

Nient’altro che il sintomo del percorso evoluzionistico dell’animalier che, dopo millenni, continua ad essere la stampa- chic, sensuale, trasgressiva- più fascinosa della moda, come dimostra il défilé per la Primavera Estate 2024 di Dolce & Gabbana che rinvigoriscono vinile, chiffon ed eco-fur con fare panterino, in total look dall’effetto roar.

storia dell'animalier nella modapinterest
Victor Virgile//Getty Images
Un look della Primavera Estate 2024 di Dolce & Gabbana

E se l’esempio non è per voi sufficiente all’abbraccio dei codici ruggenti, consigliamo la visione di una strepitosa Barbara Streisand che, in Funny Girl, si specchia con cappotto leopardato e cappello a cloche en pendant ed esclama: “Hello gorgeous!”. Ciao, splendida!

GLI ESSENZIALI
dock & bay telo mare asciugatura rapida, senza sabbia
courtesy photo
anker 621 power bank ricarica rapida con connettore lightning integrato
courtesy photo
mediterraneo. the passenger. per esploratori del mondo
courtesy photo