C’è il deserto più arido del mondo, che cela anni di ingordigia sotto la magnificenza di illusorie dune, e ci sono i bambini, che sognano le ciabattine di Gucci della “dolce Europa” e intanto smontano gli scarti altrui. E poi c’è Lupali, che dal Rana Plaza in poi, si sveglia nel cuore della notte con a mente le immagini dell’inferno vissuto.

Junk-Armadi pieni è un racconto struggente e coinvolgente, una presa di coscienza in sei atti che meriterebbe il passaggio in prima serata per mostrare al mondo che no; la moda non è tutta show e lustrini e quando va veloce- troppo veloce- non è moda, bensì un cinico sistema che seduce al fine di arricchirsi sempre più. Co-prodotta da Will Media e Sky Italia per la regia di Olmo Parenti e Matteo Keffer di A Thing By, Junk-Armadi pieni, è un viaggio triste ma speranzoso, un documentario-inchiesta che si dipana attraverso quattro continenti e sei paesi, aprendo alla riflessione sui costi sociali e ambientali dell’eccessivo consumo di abbigliamento. Un reportage travolgente che è un pugno allo stomaco come quando, a Dacca, rivela il paradiso perduto di un mare cristallino che invece di bagnare la sabbia, s’infrange su scogliere artificiali che sono cumuli di stracci. “Un girone dell’inferno” lo chiama Matteo Ward, volto e co-autore del racconto, CEO e co-founder di WRÅD, e oggi tra i più dedicati alla causa della sostenibilità. Perché “la moda ha un ruolo culturale importantissimo che va rispettato, o meglio, riscoperto e la sostenibilità per me è questo, la capacità di disegnare sistemi che ispirino comportamenti positivi”.

Non a caso, ciascuna delle puntate della serie, si chiude con un messaggio ottimista, un invito a piccoli ma autentici passi etici, da condurre al fine di migliorare i meccanismi di un’industria tra le più impattanti al mondo. Abbiamo raggiunto Matteo Ward alla vigilia della proiezione della serie alla Fondazione Sozzani (questo pomeriggio, alle 18) per parlare di Junk ed etica, di come sia possibile oggi conciliare la vocazione cangiante della moda con una sostenibilità che richiederebbe, invece, acquisiti dosati e intelligenti, e di cosa possono fare, all’atto pratico, aziende, paesi e consumatori, per rendere il sistema trasparente, dalla produzione all’acquisto finale.

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Courtesy IS MEDIA Srl
Un ritratto dei bambini incontrati durante le riprese di Junk in India

Michelangelo Pistoletto, ha detto di Junk che è “l’opera d’arte estensiva della Venere degli Stracci”. Che effetto le fa?

Mi sono emozionato molto. Quando siamo stati in Ghana, ma anche in Cile, l’unica cosa cui riuscivo a pensare davanti a quelle montagne di stracci, era proprio l’opera d’arte di Pistoletto. Il maestro è stato il primo, oltre ai ragazzi del team, a vedere in anteprima Junk e sentire che quello che noi avevamo creato, in modo genuino e per necessità di divulgazione, fosse per lui l’estensione della sua opera d’arte, è stato molto forte. Una lusinga che ci ha lasciato con una duplice sensazione: da un lato l’emozione, e dall’altro la consapevolezza di cosa ricevere questo complimento dal maestro significhi.

Com’è nata l’idea di questo progetto e perché dovremmo tutti vedere Junk-Armadi pieni?

Nasce in modo spontaneo. Dopo tanti anni di attivismo, mi ero reso conto di come in Italia mancasse un progetto editoriale che parlasse di sostenibilità in modo accessibile, inclusivo, pop se vogliamo. Gli unici strumenti che potevamo dare ai ragazzi fino ad ora erano documentari in inglese o report di testate giornalistiche dall’impronta scientifica e quindi meno accessibili. Ho lamentato tutto questo su Instagram e ho scritto ad Alessandro Tommasi, il fondatore di Will Media con il quale avevamo già realizzato dei contenuti dedicati al greenwashing. Lui ha accolto subito l’idea e contattato Sky, nell’estate ho preparato il progetto insieme al mio team e a ottobre siamo partiti per le riprese.

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Matteo Ward tra gli scarti accumulati nel deserto di Atacama in Cile

È andato in Cile, Ghana, Bangladesh, India e infine da noi, in Italia. Ci sono altri paesi che meriterebbero un approfondimento?

Il problema è molto complesso e tentare di ridurlo a un episodio di venti minuti o un documentario di un’ora è impossibile, per cui sono necessarie delle selezioni curatoriali. Ho fatto la scelta di focalizzarmi su queste prime sei realtà perché offrivano una chiave di lettura a 360° del problema, toccando tutti i punti della filiera, dalla creazione della fibra fino alla gestione del fine vita dei capi. In ciascun episodio c’è un’interconnessione tra la sfera sociale e quella ambientale che rende evidente come, spesso, sia proprio il problema di natura sociale a innescare la crisi ecologica e non viceversa. Ecco, l’ambivalenza tra queste due dimensioni, penso emerga in modo chiaro nei paesi che ho scelto. Poi certo si poteva parlare di lana e di seta, o delle stesse problematiche presenti anche in altri paesi come il Kenya, l’Etiopia, il Vietnam o anche gli Stati Uniti. L’ultimo episodio invece (ambientato in Veneto, ndr), è quello sul quale ho dovuto confrontarmi maggiormente. Quella dell’Italia per me era una scelta obbligata, dal momento che abbiamo il problema letteralmente sotto casa, con la falda acquifera più grande d’Europa completamente contaminata da sostanze PFAS, invisibili, inodori e incolori. Ma solo perché non vediamo le montagne di rifiuti come in Ghana, non significa che l’impatto ecologico della moda non ci tocchi da vicino ed era quindi necessario mostrarlo, perché spesso la distanza geografica nel vedere il problema così lontano da noi, innesca anche distanza emotiva.

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Gli stracci di Old Fadama, ad Accra

A proposito di emozioni, qual è stato per lei il momento più toccante nel girare Junk?

Ci sono due momenti nello specifico che non dimenticherò mai. Il primo è quello della montagna di rifiuti a Old Fadama, ad Accra, l’immagine più vicina alla descrizione che ci fanno da piccoli dell’inferno, con il video che non restituisce il calore, l’odore, le urla, i rumori che si sentono in quel luogo. Il secondo, che ancora oggi mi lascia con l’amaro in bocca, è l’incontro con la mamma orango nella jungla indonesiana. Eravamo andati lì apposta per vedere gli animali, per mostrare chiaramente il nesso tra la creazione di alcuni tessuti e la distruzione della biodiversità, una cosa che un documentario di moda non ha mai mostrato. Ma non ci aspettavamo di vedere questi animali a rischio d’estinzione in un luogo in cui, tutt’attorno a te, si sente solo l’incessante rumore delle motoseghe che tagliano alberi. Finché, ad un certo punto, compare lei, la mamma orango con la sua bambina, nei cui occhi ho letto la disperazione, la paura, la tristezza di una mamma cui stiamo distruggendo casa per fare magliette. È stato disarmante e non ti capaciti come, un’industria che dovrebbe creare bellezza, sia in grado di distaccarsi così tanto dal prodotto dal non riconoscere che quello che c’ispira la bellezza, lo stiamo annientando. E una volta distrutta questa fonte d’ispirazione cosa faremo? È questo il mondo che vogliamo?

Un’industria votata alla perenne novità può davvero essere sostenibile?

La moda non può essere sostenibile. Quello che possiamo fare, tuttavia, è agire oggi per mitigare l’impatto ecologico di quello che produciamo e massimizzare l’impatto sociale, con l’aiuto delle istituzioni europee, di quelle finanziarie e il coinvolgimento del pubblico. L’obiettivo è transitare da un modello di business basato sulla quantità e sulla sovrapproduzione, ad un modello basato invece sulla qualità e sulla creazione di prodotti che siano in grado di garantire guadagno alle aziende in funzione della loro durata nel tempo. Ovvero l’esatto opposto di ciò che facciamo oggi. Quindi è davvero una rivoluzione radicale ma è possibile e va fatta.

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Courtesy IS MEDIA Srl
Un’immagine della foresta indonesiana, abbattuta per fare spazio a monocolture intensive di alberi di eucalipto, per produrre rayon

In un’intervista pubblicata nell’ultimo numero di Elle, ha precisato di come l’alta moda, al contrario del fast fashion, stia ragionando concretamente verso logiche produttive sempre più etiche. In che modo?

Partiamo dal presupposto che non va bene generalizzare. Non è che solo perché sono di lusso operano meglio del fast fashion. Però, in generale, i grossi gruppi hanno sviluppato negli anni dei modelli che li mettono nelle condizioni migliori per poter effettivamente realizzare alcuni degli obiettivi per lo sviluppo responsabile del settore. Hanno filiere iper-tracciate, controllate, verticalmente integrate, artigiani che lavorano per loro da generazioni e un controllo maniacale su ogni singolo dettaglio dello sviluppo del prodotto. Insomma; gli ingredienti li hanno e per questo dico che oggi si può fare di più nel settore del lusso che altrove.

Lo scorso 7 giugno, la European Fashion Alliance, si è riunita a Bruxelles per discutere di circolarità del settore, facendo il punto sugli step necessari da intraprendere per un futuro prossimo sempre più sostenibile. Un passo decisivo, no?

È un buon momento per l’Europa. Per fare la vera rivoluzione responsabile della moda serve un intervento legislativo e finalmente è quello che sta accadendo. Negli ultimi dodici mesi c’è stato un incremento significativo delle azioni che la Commissione europea, il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione hanno portato avanti all’unanimità. Le due misure più importanti, a mio avviso, sono la CSDD, ovvero la Corporate Sustainability Due Diligence Directive che obbliga le aziende ad assicurare il rispetto dei diritti fondamentali delle persone in ogni fase della filiera produttiva, anche quando extra-europea. Mentre l’altra è la strategia che comprende nuovi requisiti di progettazione ecocompatibile per i tessuti, informazioni più chiare, un passaporto digitale dei prodotti e l'invito per le aziende ad assumersi la responsabilità e ad agire per ridurre al minimo la propria impronta di Co2 e ambientale. Sarà complesso ma è necessario, perché oggi creiamo prodotti che sono pensati per ispirare, emozionare e durare poco e l’Unione europea sta ponendo un freno a questo meccanismo.

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Matteo Ward in Bangladesh, durante le riprese di Junk

Se dovesse indicare delle strategie concrete- una sorta di to-do list per governi, aziende e consumatori- quali sarebbero?

Qua ci vorrebbe una conferenza di tre ore (ride, ndr)! Cerco di dare una risposta sintetica ma non superficiale. Ai governi, direi di obbligare i brand che commercializzano nel proprio paese a pagare uno stipendio dignitoso alle persone. Ad esempio, se c’è una fabbrica, anche virtuosa, che è obbligata dai brand a rimanere entro politiche di pricing restrittive, è chiaro che questa stessa fabbrica non attuerà mai pratiche virtuose se vuole sopravvivere, facendo diventare il compromesso ecologico la scusa per la sopravvivenza. Lo stesso consiglio che darei ai brand; tracciare non solo il fornitore diretto bensì tutta la supply chain, specie dove è più alto il rischio sociale ed economico. I consumatori finali, invece, oggi sono molto penalizzati purtroppo. Detesto la narrativa che vuole il consumatore stolto, che acquista in modo compulsivo fast fashion, con il conseguente peso dell’insostenibilità da portarsi tutto sulle proprie spalle. È vero che nessuno ci obbliga ad acquistare in modo compulsivo ma è anche vero che i brand non fanno nulla per alleviare questa dipendenza. Per cui la battaglia per la sostenibilità e per un consumo più responsabile, non si gioca solo sui materiali ma tocca anche le sfere del marketing, della comunicazione o delle neuroscienze.

Su Instagram, vedo tante prof che mostrano Junk ai ragazzi delle proprie scuole. Quanto la fa felice?

Beh, questo è bellissimo. Volevamo che Junk fosse un prodotto che ispirasse, coinvolgendo ed emozionando. Non era nato necessariamente con uno scopo educativo ma se è riuscito a raggiungere anche quello, allora abbiamo vinto. In questo ringrazio tantissimo Sky Italia che ha accettato di rendere disponibile gratuitamente la serie sul proprio canale YouTube. Una scelta non scontata e dall’altissimo valore sociale, il cui riconoscimento più grande è proprio quello che le tante prof e i tanti ragazzi che guardano oggi Junk in classe, ci stanno dimostrando.

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Un ritratto di alcune donne nel mercato di Kantamanto, ad Accra

Ci sarà un Junk 2?

Chiaramente ci sarebbe ancora tanto da raccontare, ma al momento non saprei rispondere. Quella di questo pomeriggio alla Fondazione Sozzani, in occasione dell’apertura della Fashion Week dedicata all’uomo e con la presenza di Sara Sozzani Maino che ci ha dato supporto incondizionato fin dall’inizio, sarà la prima presentazione ufficiale di Junk-Armadi pieni al mondo della moda e vedremo quale sarà il responso degli addetti ai lavori. Mi auguro che emozioni e che nessuno la veda come una critica al settore perché non lo è, anzi è una critica sociale e globale. È mettere un punto per ripartire. E chi meglio di noi può farlo?

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