Esiste una contraddizione di fondo nella Gen Z, spesso osannata come la generazione più attenta a valori quali la sostenibilità e il lavoro etico, ma al contempo prima consumatrice di fast fashion, noto per il grave impatto ambientale. La situazione è così drammatica che ThredUp ha di recente lanciato una sorta di telefono amico a disposizione dei giovani consumatori dove sfogarsi circa gli acquisti di moda usa-e-getta di cui ci si è più pentiti e ricevere consigli per imparare progressivamente ad astenersi dallo shopping compulsivo. Insomma, si tratterebbe di una dipendenza con tutti i crismi. Ed effettivamente, da uno studio di ThredUp in collaborazione con GlobalData è emerso come oltre un terzo degli acquirenti della Gen Z si definisca dipendente da fast fashion e la metà si dica intenzionata a disintossicarsi in virtù della responsabilità etica e ambientale. Anche lo studio The Fast Fashion Paradox condotto da due ricercatori danesi avvalora questa tesi, sottolineando l'ambivalenza nelle motivazioni e nel comportamento dei consumatori tra i 22 e i 25 anni. Si tratterebbe quindi di una vera e propria lotta interiore, ma a cosa è dovuta?
Fast fashion e crisi economica
La prima ragione è la più difficile da eradicare come da biasimare e ha a che fare con il costo della vita. Abbiamo già parlato di come la moda sostenibile non sia poi così accessibile a tutti e, in un recente studio di Untold Insights, società di ricerca e strategia di compravendita digitale con sede nel Regno Unito, il 96% degli intervistati, tutti di età compresa tra 16 e 40 anni e dunque Gen Z o Millennial, ha riferito di non potersi permettere acquisti sostenibili a causa del caro vita. Tra le due generazioni però sarebbero i Millennial, e non la Gen Z, a sentirsi più attivamente impegnati nel fare scelte d'acquisto sostenibili e a sentirsi più traditi qualora scoprano che brand in cui avevano riposto fiducia praticano greenwashing. In generale, tra le motivazioni emerse alla base delle scelte sostenibili della Gen Z figurano invece più che altro ragioni di facciata: se si preferisce optare per un acquisto etico piuttosto che rivolgersi al fast fashion è spesso per mantenere una certa reputazione online o tra gli amici.
L'iper-consumismo alimentato dai social
E questo ci porta al prossimo punto: il peso e l'ingerenza dei social media nella mentalità del consumatore di oggi. Se la Gen Z non può permettersi acquisti responsabili – quindi di qualità, duraturi, provenienti da aziende che non sfruttano il lavoratore e così via – è anche a causa della quantità di acquisti oggi percepita come necessaria. L'ascesa di colossi indiscussi del fast fashion come Zara e H&M ha posto le basi per una cultura dello shopping compulsivo sempre più fagocitante che punta tutto sul ricambio rapido e sulla gratificazione istantanea, naturalmente amplificati dalle dinamiche di condivisione spasmodica, novità e ostentazione che regolano i social.
Già uno studio del 2018, uno studio di Barclaycard, società di servizi finanziari con sede nel Regno Unito, aveva fatto luce sul fatto che un inglese su dieci comprasse al solo fine di migliorare la propria immagine online, procedendo quindi a indossare e scattare il nuovo prodotto per poi rimandarlo indietro e ottenere un rimborso. La pandemia ha cambiato profondamente le priorità dei consumatori spingendo sempre più sulla percezione virtuale piuttosto che sull'impatto nella vita reale, naturalmente esacerbando questa dinamica e portandola allo stremo. Si vede nei tantissimi video haul che invadono i feed di Instagram e TikTok, dove le camere dei giovani consumatori letteralmente esplodono di pacchi di Shein pronti per essere scartati con trepidazione, per poi proseguire con le prove in presa diretta e le domande di rito come "Che faccio, lo tengo?" per aumentare l'engagement da parte dei propri follower.
In definitiva, per quanto si vogliano perseguire valori sani, niente batte il culto dell'immediatezza. Il nostro modo di consumare è narcisistico e disfunzionale, piegato più o meno volontariamente alle subdole regole del gioco imposte dai nuovi player del settore, come Shein, in grado di entrare nei cuori della Gen Z proprio perché in grado di saziare la loro voglia di dupe (repliche di design originali di marchi più famosi e, manco a dirlo, più responsabili) più rapidamente di chiunque altro nonché capace di sfruttare i social come cassa di risonanza e marketing a basso costo, proliferando in modo naturale e finendo per trasformare gli utenti in testimonial che portano il verbo in modo più o meno consapevole.
Di recente, Business of Fashion ha riportato che il valore di Shein sarebbe sceso nel corso dell'ultimo anno, ma la notizia fa poco scalpore se si pensa che la sua stima di 66 miliardi di dollari da sola supera quelle di aziende come Adidas, H&M e Burberry messe insieme, lasciando solo Inditex – quindi, di nuovo fast fashion – sul podio. Non un dato rassicurante, considerando come aziende come Shein non solo siano regolate da ritmi produttivi seriamente dannosi per il pianeta e per la psicologia del consumatore, ma contribuiscano anche a svalutare i concetti di qualità, originalità e creatività che dovrebbero essere alla base del settore moda, riproponendo a prezzi stracciati e in materiali inquinanti design anche appena visti in sfilata, battendo così sul tempo di produzione il brand che li aveva ideati in primo luogo e permettendo ai giovani consumatori di "anticipare" la tendenza, di fatto annullando gli sforzi del team creativo originale.
Su questo nel corso del tempo si sono esposti molti designer, l'ultimo è stato Giuliano Calza, direttore creativo di GCDS, che dopo l'ennesima copia di una delle sue creazioni – le scarpe Morso, con il tacco che ricrea la bocca aperta di uno squalo – si è sfogato così su Instagram: "Fa male ed è offensivo. Non solo uccidere il pianeta le politiche disumanizzanti che rendono questi prezzi possibili. Ma la cosa che mi ferisce di più è veder rubate le idee, il sudore, l'amore, i mesi di dedizione, l'energia necessaria a dar vita a certe idee. Perché alla fine sarà solo una sfacciata, scadente copia su Instagram. [...] A chiunque di voi che chieda, allora perché non li fate a poco prezzo come loro? Perché rispetto gli esseri umani, rispetto il lavoro duro e i lavoratori. Uso produzioni e materiali etici".
Fast fashion, un nuovo modello: il caso di Temu
Si finisce in un circolo vizioso frustrante per tutti, eppure che sembra impossibile frenare, con nuove aziende che propongono prodotti a costo quasi zero operando con politiche opinabili che spuntano come funghi, pronte in pochissimi mesi a prendersi tutto in virtù di strategie digital infallibili. L'ultimo caso è quello di Temu, rivenditore online di proprietà cinese ma con sede a Boston, lanciato negli Stati Uniti a settembre 2022 e, a inizio 2023, già salito in vetta alle classifiche delle app più scaricate – battendo perfino Google e TikTok – grazie anche a una campagna di marketing aggressiva, inclusa una pubblicità al Super Bowl e l'endorsement di varie celebrities come Jason Derulo e JuJu Smith-Schuster. Ora, il caso di Temu è particolare e non si tratta propriamente di fast fashion dal momento che Temu si pone infatti come rivenditore e non come produttore. Il paragone con Shein nasce perché, come quest'ultima, l'azienda è salita agli onori della cronaca per i prezzi estremamente bassi del proprio catalogo, che spazia dall'abbigliamento agli elettronici agli strumenti musicali.
I loro prodotti vengono quasi tutti direttamente dai magazzini dei venditori localizzati in Cina, eliminando così i costi di eventuali intermediari tra produttore cinese e rivenditore americano. Come Shein, anche Temu ha sfruttato il successo di TikTok, con le visualizzazioni dell'hashtag #temu che vanno per le centinaia di migliaia e i numerosi video di "Temu hauls" in cui gli utenti mostrano gli acquisti a prezzi bassi. Quello che però rende Temu diversa da ogni altro modello visto finora, potenzialmente più destabilizzante per la competizione perfino rispetto a Shein, è il suo modello incentrato su un sistema di crediti e premi volti a fidelizzare il cliente e, contemporaneamente, reclutare nuovi adepti: oltre ai prezzi bassi, Temu si offre anche di regalare prodotti agli utenti che promuovono l'app sui loro social network e convincono amici e familiari a iscriversi, al punto che molti iscritti in fase iniziale possono ambire a ricevere prodotti a casa pagando con i crediti accumulati e senza neanche dover inserire i dati della propria carta di credito. Se sembra tutto troppo bello per essere vero è perché forse lo è: il modello di approvvigionamento di Temu all'apparenza non avrebbe niente di sospetto, ma il fatto che sia lo stesso impiegato dalla sua azienda affiliata cinese, Pinduoduo, che ha anche avuto problemi con la vendita di prodotti contraffatti, fa sorgere non pochi dubbi sull'autenticità dei prodotti.
Nei pochi mesi di vita dell'azienda non sono mancati poi i reclami da parte di acquirenti che hanno riportato di prodotti non consegnati o danneggiati, addebiti misteriosi, ordini errati, servizio clienti inefficiente al Better Business Bureau, che l'ha catalogata come poco affidabile. Eppure, in cinque mesi Temu ha registrato 24 miliardi di download, confermando la teoria per cui il consumatore di oggi è sempre meno interessato all'originalità di quel che compra e meno incline a approfondirne la derivazione fintanto che può accaparrarsi un prodotto che online possa far figura. Oltre alle domande circa l'autenticità dei prodotti spediti, questo modello di business potrebbe avere ovvie ripercussioni sul mercato costringendo altri rivenditori, come Amazon, a ripensare le loro politiche di approvvigionamento, spedizione e soprattutto prezzi, esercitando pressione verso una riduzione dei costi che – sebbene possa sembrare una notizia positiva – non arriva mai senza conseguenze sulle condizioni dei lavoratori e sull'ambiente.
Ma di chi è la colpa?
Del consumatore che insegue il sogno di comprare sempre di più spendendo sempre meno oppure delle istituzioni che permettono la proliferazione di aziende che reiterano il culto dell'acquisto narcisistico e della produzione di massa? Rob Greenfield, capo della eco-community Earthtopia, non ha dubbi e spiega a WWD che “I prodotti sostenibili sono spesso più economici a lungo termine grazie alla loro riutilizzabilità. Tuttavia, i loro costi iniziali generalmente più elevati possono renderne difficile l'acquisto per molti giovani che stanno cercando di vivere in modo sostenibile e con i propri mezzi. È fondamentale, quindi, come indica questo rapporto, che i governi debbano fare di più per livellare queste condizioni imponendo tasse a quelle aziende che producono prodotti di bassa qualità, ad alto contenuto di plastica e ad alta intensità energetica e, a loro volta, incentivandole a produrre alternative più convenienti e sostenibili”.