C’era una volta il vintage, polverosa alternativa estetica al sistema, emblema di moda anticapitalista e quindi economica. Il vessillo vestimentario (un po’ stantio), di chi alle regole non ci stava, e si abbigliava rovistando tra i mercatini delle pulci, con buona pace delle mamme che “chissà quanti germi quei vestiti”. La pratica di indossare abiti vecchi, per lo meno fino agli anni Ottanta, era un gesto radicale, un modo per andare controcorrente, affermando la propria unicità. L’usato, un po’ sudicio o sbrindellato, acquisì una patina glam con gli anni Novanta del grunge, quando vestire con il maglione della nonna scovato in soffitta, divenne terribilmente cool. All’ormai leggendario MTV Unplugged del 1993, Kurt Cobain si presenta in cardigan, visibilmente pieno di pelucchi e chiaramente di seconda mano, e consacra un classico della moda borghese, alla sottocultura. Ci mette sotto una maglietta delle punk-femministe Frightwig e lo correda di bruciatura di sigaretta, poi astutamente sottolineata nel 2013, quando questo zenit modaiolo del grunge verrà battuto all’asta per 334 mila dollari. Ecco che il second hand diventa più fascinoso (e mainstream) che mai. Per darvi l’idea, è sempre del ‘93 la campagna Who Wore Khakis di Gap che risignifica a pop i pantaloni khaki di Jack Kerouac da lui orgogliosamente indossati più e più volte, in un invito ad abbigliarsi à la beatnik, ovvero usato, in barba al boom economico tutto elettrodomestici pastello e guardaroba per bene. Facciamo questa premessa perché, nel racconto di una storia invece modernissima che si svolge tra Tik Tok e Depop, è importante capire quanto si sia allargato il mercato dell’usato, che ha perso il suo valore rivoluzionario, tramutando il vintage in una categoria della moda ampissima spesso confusa con il pre-owned che, invece, indica semplicemente abiti, più o meno recenti, usati.
Sono pre-owned, o più poeticamente, pre-loved anche i capi che si trovano all’interno dei charity shops, enti che uniscono la vendita dell’usato alla beneficenza e, per questo, sempre in odore di polemica pronta a scoppiare da un momento all’altro. Se poi, i capi usati che si acquistano, vengono rivenduti a prezzi più alti, o quanto meno quasi identici a quelli dei prodotti nuovi, ecco salire alle stelle l’indignazione.
La “jbwells controversy” esplode su Tik Tok
Non deve aver passato dei bei momenti, in effetti, Jacklyn, diciannovenne studentessa americana (su Tik Tok @jbwells2) che lo scorso 24 gennaio ha mostrato sul social dei giovanissimi il suo bottino da thrift shop poi rivenduto su Depop. Nell’ordine, Jacklyn snocciola (e indossa): una gonna patchwork a portafoglio, un long coat in suede profilato di pelliccia, svariati blazer in pelle e una carrellata di gonne- micro, midi o lunghe- ovviamente tutte “pazzesche” e molto Y2K. Direte voi, e il male dove sta? Il male sopraggiunge quando Jack rivende tutto su Depop a prezzi, a detta di molti utenti, non giusti. Nello specifico, gli oggetti della discordia, sono i primi due dell’elenco: la gonnellona granny style, e il cappotto boho, rispettivamente venduti da @jbwells2 al prezzo di 35 e 175 dollari. Su Amazon, chiosa un utente con tanto di video dimostrativo della ricerca, la gonna si trova nuova di zecca a 45 dollari e i 10 della differenza sono sufficienti a far scoppiare la polemica che, da Tik Tok, si espande presto a macchia d’olio anche su Twitter. Dove il tono dei commenti è più o meno questo: “comprare vestiti ad un prezzo accessibile e rivenderli per il triplo, non è lavoro bensì uno sfruttamento sconsiderato”, o ancora “la cultura del resell è la più grande piaga della nostra generazione”. C’è chi, addirittura, si spinge più in là, arrivando a scomodare la sociologia e parlando di “gentrificazione dell’usato”.
Va da sé che Jacklyn, manco fosse una superstar beccata in flagranza di chissà quale reato, è costretta alla pubblica ammenda: con il resell dei capi usati ci paga le rette dell’università e, oltretutto, contribuisce a lastricare di un ulteriore tassello, la strada verso una moda sempre più circolare. Ora; il terreno è scivoloso, come sempre è quando c’è di mezzo un guadagno, ma la povera venditrice non è una super ricca che scova da un charity shop una chicca di extra-lusso per due soldi, rivendendola a chissà quale cifra. Inoltre, dice bene Sophie Benson su British Vogue, quando invita ad allargare l’orizzonte ed inserire la storia in un quadro più ampio. Chi accusa Jacklyn di scippare abiti usati sotto il naso di chi davvero ne ha necessità, non ha bene in mente uno dei maggiori problemi della moda contemporanea: la sovrapproduzione.
Usato sì, ma con attenzione
Stando a Lifegate, ogni anno nel mondo vengono prodotti 17 milioni di tonnellate di tessuti. Tutti sfruttati? Assolutamente no, e molto dell’invenduto intasa proprio gli scaffali del second hand, costretto anche lui, a darsi al riciclo, spesso tutt’altro che sostenibile. Inoltre, lo dicevamo poco fa, quello del second hand è un segmento dalla crescita esponenziale che, secondo Thread Up- retailer di abiti usati che da anni monitora il settore- è destinato ad una crescita di tre volte superiore rispetto a quella del normale mercato dell’abbigliamento, arrivando a toccare, si stima, picchi del 217% entro il 2026. Il 70% dei consumatori, sottolinea sempre il Resale Report, afferma poi che oggi l’acquisto di seconda mano è più semplice che mai, merito di app e piattaforme online che permettono la compravendita in scioltezza.
Questo, per tornare al nostro affaire Tik Tok, ha anche molto a che vedere con i possibili prezzi “gonfiati” dell’abbigliamento usato. La rivendita richiede infatti ore di lavoro: ricerca, pulizia e immagini da scattare che siano pronte alla pubblicazione, fanno parte di un pacchetto (di tempo e denaro) che, in un qualche modo, è giusto ricompensare. Insomma; se abbiamo almeno un po’ a cuore la salvaguardia del nostro pianeta, acquistare abiti e accessori usati è cosa buona e giusta. Ovvio, il tutto non dev’essere un ulteriore trigger all’acquisto compulsivo, così come la pratica del resell non deve sfuggire di mano. Perché rivendere pensando già a quanto si possa guadagnare (con sovrapprezzo) ecco che no, non è per niente etico.