In azienda succede sempre: ognuno fa il proprio lavoro senza dire e senza chiedere, perché dell’indicibile non si può parlare, finché un giorno non arriva quell’unica persona che per qualche motivo ne sa sempre una più del diavolo a rivelare quanto prende il nuovo assunto e in un attimo in ufficio scoppia il finimondo. Le disuguaglianze fanno sorgere sentimenti amari nei confronti dei colleghi – nonostante lo stipendio non sia certo una colpa –, frustrazione e sfiducia nel management, livore verso le risorse umane. Chiunque abbia avuto un’esperienza di lavoro corporate può testimoniare. Nella moda, in particolare, il salario è più tabù dell’età, di quante pillole di Xanax si prendono di nascosto in piena campagna vendite e del numero di pianti giornalieri fatti chiusi in bagno a ridosso di un lancio. Ma perché parlare di soldi è così difficile?
Da una parte si tratta di una questione culturale fortemente radicata del mondo occidentale: se si pensa di guadagnare più del proprio interlocutore si evita di esporsi per non ostentare, col rischio di far sentire l’altro da meno, mentre se al contrario si pensa di prendere meno dell’altro ecco che scatta il sentimento opposto, la vergogna, e allora non si parla per non rischiare di uscire sminuiti dal confronto. A questo si aggiunge lo stigma della maleducazione: nonostante la nostra vita sia regolata da un sistema iper-capitalistico, i soldi sono ancora “sporchi”, parlarne o mostrarsi troppo attaccati allo stipendio può farci passare come persone venali. Eppure, parlare di soldi tra colleghi avrebbe i suoi lati positivi. A volte, soprattutto chi ha poca esperienza ed entra in azienda in una posizione entry-level non ha alcun metro di paragone per valutare che la cifra che gli è stata offerta rientri negli standard di mercato. Sapere quanto guadagnano i colleghi più stretti, chi svolge mansioni simili e si conosce da vicino, può aiutare a orientarsi e, rapportando la cifra all’esperienza che si riconosce all’altro oltreché alla propria, sarebbe più facile capire se la retribuzione sia commisurata ai propri sforzi e alle proprie conoscenze o se si dovrebbe ambire a qualcosa di più.
Prima di tutto però sono proprio le aziende a incoraggiare il clima di omertà. Se parlare di soldi è un problema ovunque, la moda è proprio tra i settori in cui stabilire standard di riferimento per gruppi salariali sembra più difficile. Siamo in un contesto creativo e, si sa, la creatività non ha prezzo. Nella moda coesistono diversi talenti ed è difficile trovare una metrica che valga per tutti, o almeno finora così è stato. Oltretutto, mantenere il segreto aiuta a nascondere le iniquità e a doverle giustificare. Così, il non detto incrementa l’ingente dislivello tra posizioni entry-level con un margine di crescita economica pressoché irrisorio e spalmato su periodi lunghissimi e, all’estremo opposto, una classe dirigenziale ultra-pagata, con stipendi a sei o sette cifre. Crescere internamente è quasi impossibile, l’unico modo per fare uno scatto di carriera è passare da un’azienda all’altra, ribattere, contrattare sull’offerta da parte della nuova azienda, sperare nella controfferta se si spera tacitamente di poter restare nella vecchia. E anche questo non è così scontato, i numeri di chi contratta sul salario in fase di negoziazione del contratto sono ancora bassissimi, sopratutto se il lavoratore è una donna: secondo la Harvard Business Review, solo il 12,5% delle donne americane contro il 58% degli uomini.
Come spiega Business of Fashion però di recente al settore moda si richiede una maggiore apertura. La spinta arriverebbe da un mix di fattori, in particolare le nuove leggi sulla divulgazione che coinvolgono New York e la California, che stanno facendo della trasparenza salariale un punto di vantaggio da non sottovalutare. Soprattutto in un clima in cui le assunzioni si fanno sempre più difficili per la carenza di lavoratori disposti ad accettare posizioni poco flessibili – in ufficio full-time o con poche chance di mobilità interna – e l’aumento dei turnover. Alla base di questa nuova cultura del lavoro c’è una generazione generalmente più reattiva delle precedenti, la Gen Z, che, cresciuta col mito di influencer in grado di fare successo dall’oggi al domani, non ha tempo da perdere in un’azienda che non è disposta a riconoscere subito il proprio valore, ha una scarsa propensione all’attesa per il successo a lungo termine e, in generale, se qualcosa non quadra con lo stipendio è subito pronta a parlarne apertamente sui social, facendo del grande tabù un affare pubblico. Per non parlare poi di altri fenomeni portati avanti (soprattutto) dalle nuove leve negli ultimi anni che fanno preoccupare le aziende per l’incapacità di trattenere il lavoratore: pensiamo al quiet quitting, ovvero fare il minimo indispensabile in risposta a una paga non adeguata alle mansioni richieste, e le Grandi Dimissioni post-Covid, che interessano i più giovani, liberi dalle responsabilità e pronti a ripensare la loro vita con dinamiche di work-life balance più sane. Le nuove generazioni sono spesso accusate di essere autoreferenziali o egoiste ed è vero, relativamente a questo ambito lo sono, ma trattandosi di lavoro non c’è proprio nulla di male. Le aziende però, giustamente, si preoccupano, e stanno capendo che una maggiore apertura circa i salari potrebbe attrarre nuova forza lavoro e fidelizzare quella esistente, creando un clima più felice.
Insomma, tutto questo, sempre secondo BOF, starebbe spingendo le aziende di moda a voler divulgare le proprie fasce salariali. Il lavoro da fare però è a monte: prima ancora di esporle pubblicamente, è necessario rivederle e standardizzarle. Il rischio è che la trasparenza si ritorca contro l’azienda stessa mettendo a nudo ingiustizie troppo palesi – che spesso, purtroppo, derivano anche dalle differenze di genere o provenienza. Nella definizione delle fasce si possono prendere in considerazione i job title (designer, merchandiser) o gli scatti di carriera da junior a senior, da assistente a direttore. Si può prevedere l’importo minimo e massimo con cui si è disposti a pagare qualcuno, facendo i dovuti distinguo per le competenze uniche di un candidato. Ma, anche qui, bisogna stare attenti a non impostare margini troppo ampi che possano mascherare diseguaglianze.
Insomma, la strada verso il Nudismo Finanziario – divulgato in Italia dal progetto Rame di Annalisa Monfreda e Monserrat Fernandez Blancocon con le loro «conversazioni audaci sui soldi» – è ancora lunga, ma è questa la direzione verso cui, anche nella moda, ci si sta muovendo ed è un bene per tutti.