I cache-pot floreali, il tavolo da pranzo in tessuto fiorato, le sedie in chintz, le tende rosso-dorate, le poltroncine cabriolet, il paravento con tralci di fiori di ciliegio, la chinoiserie, gli armadietti laccati di nero e altri oggetti di una femminilità boudoir, ovvero da signora dedita a eleganti e intime conversazioni.
Jackie Kennedy Onassis non era una collezionista, ma aveva quel gusto distratto per le cose belle proprio di chi ha passato un’infanzia tradizionale nell’alta società americana, fra carte da parati equestri, busti di avi e presidenti. “La giovane donna più invidiata del mondo occidentale”, nata Jacqueline Bouvier, Jackie per l’opinione pubblica, la first lady dell’era Kennedy fu, innanzitutto, un’ottima regista.
A ventun anni scrisse notoriamente un saggio su come le sarebbe piaciuto essere “una specie di direttrice artistica globale del Ventesimo secolo”. Il testo le valse il primo premio in un concorso per nuovi talenti indetto dal rotocalco di moda Vogue e una carriera come editor, seppur in differita – avrebbe iniziato a quarantasei anni.
Fu anche una notevole arredatrice: la sua trasformazione della Casa Bianca in una Camelot dorata, con riferimento al musical allora prodotto a Broadway, è considerata un manifesto di modernismo. Pubblicata nel 1962, la guida ufficiale della residenza presidenziale così sistemata vendette oltre mezzo milione di copie in dieci mesi.
Infine, una certa e apparente noncuranza verso tale stratificazione di cose, oggetti e modi di fare: “Cosa hanno a che fare i miei capelli con la capacità di mio marito di fare il presidente?” si chiedeva, pur sapendo già la risposta: moltissimo. Il che, naturalmente, si riflette in un armadio e in una serie di capi che, sessant’anni dopo, suscitano ancora un “questo è molto Jackie!”.
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Jackie: anatomia di un’imprenditrice dell’apparenza
Un’artista della performance, “un’imprenditrice dell’apparenza”, scrisse Wayne Koestenbaum, che per Jackie Under My Skin: Interpreting an Icon (1995) esaminò ogni singolo cappello, spilla e occhiale alato indossato dalla first lady, Naturalmente, niente di tutto ciò fu mai un caso, quanto un componente di un aspetto lucido e impenetrabile al più accecante flash. Quanto alla sua Camelot, set di settimanali fotografici settimanali in nome di una buona apparenza senza polveri sotto i tappeti, sette mani di vernice furono necessari per trovare la giusta tonalità, settemila sterline per una carta da parati degna delle migliori accoglienze diplomatiche. Nota a parte, di polvere sotto al tappeto ce n’era parecchia: strenua difensora del matrimonio e della vita casalinga, oltre che della moglie come figura di distrazione per consorti stanchi, i tabloid sono tristemente ricolmi di testimonianze circa i tradimenti del marito. Ma i vestiti le furono utili anche a questo, come un camice di apparenza di un mondo pieno di crepe e senza stucco alla mano.
Ed ecco segnalata una delle tante contraddizioni di Jackie, ben ritratta nell’omonima pellicola di la Fontaine, di cui si rammenta la scena finale, con la donna che fruga nel guardaroba, considerando e poi scartando, uno dopo l’altro, una serie di abiti – uno arancio-corallo, uno verde chiaro e uno broccato dorato. Parrebbe una lotta – interiore, naturalmente. “I suoi abiti erano una sorta di gabbia morbida”, sostiene il regista la Fontaine. Eleganti, ma di un’eleganza già-data, plastificata, forzatamente perfetta. Sempre sul finale, Jackie osserva, mentre conduce la sua auto, una serie di manichini con capelli cotonati e tailleur sobri e monocromatici, come specchi di sé e della sua influenza sul mondo. Sul volto ha un’espressione compiaciuta: chissà cosa penserebbe oggi, anno domini 2025, nel vedere su magazine locali e internazionali, le liste shopping estive ricolme di capi “alla Jackie”, di cui si offrirà qui una breve sinossi.
Una breve sinossi del Look alla Jackie
L’uniforme della apparizioni pubbliche della signora Kennedy durante gli anni alla Casa Bianca era così composta: abito a tubino, tailleur sartoriale, un paio di giri di perle sovrapposte, guanti bianchi e cappelli pillbox. Diversamente, l’uniforme da tempo libero– quella che una certa cultura aziendale avrebbe definito “Casual Friday” – prevedeva abiti di cotone bianco, scolli sulla schiena, foulard, occhiali marcatamente oversize, pantaloni alla caviglia, e una generale predilezione per sete, stampe etniche e stili nautici o equestri ma sempre con l’aggiunta di uno “chic” finale. Quanto alle Maison, i foulard andavano firmati Hermès, i completi Chanel o Diori, gli abiti Hubert de Givenchy.
“Estremamente parigini ma con un tocco di disinvoltura americana da Long Island e Newport aristocratiche” è la definizione che l’editor Hamish Bowles, curatore della mostra del 2001 Jacqueline Kennedy: The White House Years, ci offre dei suoi capi. Patriottica, ma con gusti francofili, ha rappresentato un certo momento di svolta: “È quella sintesi emozionante tra la completa proprietà e conformismo degli anni Cinquanta e la modernità degli anni Sessanta”, prosegue Bowles, secondo cui l’unico paragone possibile fra Jackie e un’altra figura pubblica sarebbe con Lady Diana. Entrambe avevano una comprensione innata del simbolismo degli abiti. Entrambe diedero il nome, come è noto, a una relativa it big: la Lady Dior e la Jackie di Gucci. Inizialmente denominata Gucci G1244, andò esaurita dopo il primo scatto sul braccio di Jackie Kennedy Onassis, mentre la first lady ricevette un cavalierato della moda. E a giudicare dalla popolarità dell’ultima riedizione della it bag – la Jackie 1961 – ben abbinata a pantaloni Capri, collane di perle e perline, scolli a barca, maxi occhiali e simili stili da diva anni Sessanta, la risposta alla domanda in calce – Sarà un agosto alla Jackie? – parrebbe un deciso Sì.