Nel 1896 l’americano John E. Brooks si trovò ad ammirare i bottoni nascosti che fissavano i colletti dei giocatori di polo inglesi e iniziò a progettare quel che, a distanza di anni, si sarebbe definito un classico della sartoria sportiva, con quell’arco nel colletto per dissimulare i bottoni che solo un occhio allenato come Brooks avrebbe potuto notare. Il guardaroba alto-borghese e roboante di Francis Scott Fitzgerald, i completi del presidente James Madison, l’equipaggiamento della forza volontaria dei Rough Riders e quel cappotto in lana nera che Abraham Lincoln indossò alla sua seconda inaugurazione sono anch’essi opera dei Brooks Brother, azienda bicentenaria traghettata, a partire dal 1933, dai figli del fondatore Henry Sands Brooks – Henry Jr. Daniel, Elisha, Edward e il citato John. Il grande edificio sulla Madison Avenue, a New York, è un codice, un documento storico che sa di spezie, cuoio e sapone – così ne parla Lisa Birnbach, autrice del best seller The Official Preppy Handbook, pubblicato nel 1980.
Il contesto che spinge Lisa a parlare della fragrante sede centrale dei Brooks Brother è la presentazione, nel luglio 2020, di un’istanza di fallimento da parte dell’archeologica azienda, già sopravvissuta alla Grande Depressione, alla recessione nel 2008 e all’avvento del Casual Friday, con la conseguente ricalibrazione dell’armadio wannabe a Wall Street. Formalmente, si è trattato di un Chapter 11 – “Capitolo 11” (del Codice Fallimentare della Corte degli Stati Uniti, sottinteso). È quella che in Italia chiamiamo “amministrazione controllata” o “fallimento per riorganizzazione”. Difatti, il negozio sulla Madison Avenue esiste ancora e la casa della prima polo – il pullover bianco a maniche corte in jersey di lana con colletto ripiegato – può dirsi salva.
Lacoste: la polo entra nella storia del tennis
Il modello introdotto sul mercato ai primi del Novecento seguiva de facto la funzione del giocatore di polo, concedendogli massima libertà di movimento nel colpire con la mazza e preservando il decoro di un corpo non eccessivamente mostrato – le canottiere, per intenderci, non erano (e non sono) ammesse. Tennisti e golfisti – che allora potevano indossare solo camicie bianche, al massimo e occasionalmente arrotolate sulla manica – avrebbero riconosciuto la potenzialità dell’invenzione solo più tardi, alla fine degli anni Venti, quando cominciarono a camminare sulle gambe della borghesia in vacanza, lungo la riviera francese. Poi, nel 1926, le polo assunsero una svolta per così dire rettiliana: il tennista René Lacoste “Le Crocodile” apparve in campo con una polo bianca logata e quello che sarebbe diventato un marchio di fabbrica: il piccolo coccodrillo verde. Quell’anno Lacoste vinse il Campionato Nazionale degli Stati Uniti e compì un passo evolutivo verso un archetipo nel nuovo armadio à la sportif.
Nel 1933 Lacoste entrò in affari con un produttore di maglieria per presentare al mercato internazionale la sua chemise Lacoste in cotone piqué trasparente, ideale, come suggeriva la pubblicità, non solo per le tennis e le golf, ma anche per la plage. Da qui al Casual Friday il passo sarebbe stato breve. Ad ogni modo, le connotazioni del polo e della relativa divisa sono ab origine elitarie – “Cos'è un giocatore di polo se non un aristocratico fuso con un cowboy?” si chiedeva retoricamente Troy Patterson nel 2015. Il che ci spiega anche le ragioni del duraturo sodalizio fra l’elitaria cultura giovanile delle Ivy League americane e le polo: quando negli anni Cinquanta la compagnia americana Izod portò le Lacoste negli States, proponendole in colori più vivaci del candido bianche wimblediano, il destino preppy era pressoché segnato.
Invero, il primo tentativo di commercializzazione fu un fiasco: vendute al prezzo di otto dollari, le chemise rimasero in gran parte invendute. Se non che il distributore Izod pensò di inviarle ad alcuni amici di alto rango – una sorta di primi-pre-influencer. Tra questi, Bing Crosby, Bob Hope e il presidente Eisenhower. Quando quest’ultimo venne fotografato con una di esse mentre giocava a golf, il game poté dirsi vinto. Il resto è storia.
Fred Perry e Ralph Lauren: due modelli culturali per una sola polo
Naturalmente, la storia della polo non coincide per intero con quella di Lacoste. Ma collima anche con quella di un altro giocatore, il tennista britannico Fred Perry, che nel 1952 introdusse un modello con corona d’alloro sul petto, colletto alquanto stretto e due righe di bordatura. Le Fred Perry furono particolarmente apprezzate da una certa parte della gioventù britannica – skinhead, punk, mods e altri frequentatori delle strade suburbane – per via delle origini operaie di Perry. È così che dai campi di Wimbledon, ove Perry veniva osservato dall’alto al basso, la polo migrò negli armadi dei Perry Boys.
Nel frattempo e altrove – torniamo negli States – il newyorkese Ralph Lauren costruiva la sua azienda di abbigliamento su un altro tipo di società, quella di una noblesse oblige catturata in un eterno pomeriggio di hobbie dorato i cui figli, i rich kids del ’72 (anno in cui Lauren agganciò per la prima volta il suo cavallino a una polo) frequentavano le ricche università private degli Stati Uniti (o anche scuola preparatorie) – ho già detto che preppy deriva da prep school?
Sullo stato dell’arte della polo oggi
Quanto allo stato presente della polo nella moda, dopo il ’72 i progressi tecnologici nel campo dei tessuti hanno favorito nuovi standard di decoro, spostando la barra del “casual” un po’ più in là. Ed eccoti qui che indossi un paio di pantaloni elasticizzati (yoga pants, direbbero a Los Angeles) per andare a cena fuori. Ed ecco (anche) che la polo – ormai quel classico dell’abbigliamento che pare torni in voga ogni due anni, ma di fatto è sempre lì – si forgia di credenziali di alta moda, ben sostenuta da marchi quali Loewe, Dries Van Noten, Gucci e The Row. Chi sulle passerelle dell’estate 2025 ne ha rispettato a pieno l’Heritage sportivo – seppur con un tocco di extra-vaganza – è stato il brand Avavav; chi l’ha inserita in look multi-stratificati e con un motivo che mi ricorderebbe le tovaglie da picnic di Maria Antonietta – se mai si potesse dire che esistessero – è Miu Miu. C’è poi chi, come Versace, l’ha glamourizzata con il classico zig-zag della casa e chi, come Jonathan Anderson da Loewe l’ha tagliata di netto, salvo poi aggiustare le cose con delle maniche penzolanti dal centro.