Nel 2014 Brooklyn aveva smesso di essere cool. Lo avevano proclamato i media locali e internazionali, la gente nativa e chi lì si era trasferito proprio in nome della presunta coolness. Headquarter dell’hipsterismo, centro se non epicentro della cultura urbana, deposito grunge di ogni idea artistica che New York possa aver mai partorito, Brooklyn aveva perso quel che Baldassarre Castiglione avrebbe definito, non più tardi del 1528, “sprezzatura”. È il je ne sais quoi dei francesi, l’indifferenza nel porsi, il celare ogni sforzo. Ma contro i condomini del lusso, il cedimento delle piccole imprese indipendenti alla dipendenza da altri, contro le catene cinque stelle sorte tra gli alberghetti di quartiere senza plus né supremium, contro, infine, gli artisti indie spinti fuori dal mercato, nulla aveva potuto la vecchia Brooklyn. Nulla, la tardiva presa di coscienza che marchiare le città come cool può essere irrimediabilmente dannoso, con l’avvento di acquirenti internazionali di immobili pronti a capitalizzare sul marchio della coolness, e finendo poi con l’erodere e snaturare ciò che ha reso quel luogo desiderabile in primo luogo. Ma poi, esattamente, che cosa l’ha reso desiderabile? Può essere che un concetto perenne e abusato come cool sia stata la causa di un tale maremoto industriale?

Tracciare una storia sociale della coolness

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Anthony Barboza//Getty Images
Giovani a Coney Island, New York, 1975 ca.

In Cool Rules: Anatomy of an Attitude (D. Pountain, D. Robins 2000) l’eredità storica della coolness viene fatta risalire a una specifica posa individuale, a un sedimento glaciale nel volto, a un distacco emotivo nel fare – cool è inglese per “freddo”. Secondo Pountain e Robins si tratterebbe di un coagulo di resistenza, sfida e disaffezione, ubicato ai margini del comunemente detto mainstream. Il principio penombrale dovrebbe spiegare il fascino di James Dean e del gin Malfy, le campagne marketing di Dior J'Adore e la cabina telefonica di Asteroid City. Cos’abbiano in comune, lo spiegheremo a breve. O meglio, lo spiega la scienza, con debite prove, esperimenti, statistiche, codici alchemici e dati alfanumerici. Parrebbe una contraddizione che una scienza dei fatti si ponga al servizio di una qualifica evanescente come cool, eppure è successo, con un report di 22 pagine pubblicato a inizio luglio sul Journal of Experimental Psychology.

Agli esperimenti condotti dall’ American Psychological Association hanno partecipato quasi seimila persone provenienti da dodici paesi diversi. Lo scopo era spiegare, per mezzo del metodo scientifico, perché si spendano tempo e denaro nel tentativo di apparire ed essere percepiti come cool. Ma prima, alcune premesse di ordine socio-culturale: il termine è emerso come vezzo di una controcultura ruvida e ribelle negli anni Sessanta. Benché, come chiarito da Thomas Frank in The Conquest of Cool (1996), i ricordi siano vaghi e massificati – “materiale da radio rock classica e da repliche televisive commemorative dei filmati dei disordini di Chicago del 1968” – quasi istintivamente comprendiamo gli anni Sessanta come un periodo di grande cambiamento. La terra natale del “figo”. Un’epoca in cui mode e anti-mode hanno determinato il lido in cui, sostiene Frank, “siamo condannati a vivere”.

Sulla capitalizzazione della coolness

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Rosdiana Ciaravolo//Getty Images
Milano, 22 settembre 2023 – Veduta generale durante la première italiana di Asteroid City e l’inaugurazione della mostra presso la Fondazione Prada.

L'impiego di un verbo tanto infuocato quanto “condannare” si spiega qualche riga più tardi: Frank, come altri intellettuali di sinistra, vede nel Sessantotto una disfatta. Il consumo vistoso da parte degli hipster – “sedicenti sovversivi, pochi dei quali hanno alcun problema con l’ordine economico-culturale terrificante in cui stiamo entrando con leggerezza alla vigilia del millennio” scrive sulla data di scadenza degli anni Novanta – aveva portato a un’identificazione quasi totale fra cultura aziendale e controcultura. Gli slogan e le immagini di una ribellione fredda, impassibile agli applausi e a una richiesta di sorriso – tra gli esempi ancora puri, il musicista jazz Lester Young che negli anni Quaranta sfidò le norme razziali rifiutandosi di sorridere mentre si esibiva – erano diventati un capitale culturale.

Mettendo da parte le etichette discografiche indie, gli zine e il pamphletismo di penne schierate contro l’industria dei potenti, Frank nota come pubblicità astutamente oltraggiose, motti di tendenza, testi a corto di fiato e mode da rock riciclato fossero entrate nell’ordine economico-culturale. Fra le eccezioni citate vi è Abbie Hoffman, il cui Steal This Book (1971) – un manuale yippie per sopravvivere tramite il furto, che lo stesso autore voleva che i lettori rubassero nei negozi – rimane profondamente cool, in quanto ostile all’ordine del consumo. Tutto il resto, Brooklyn compresa, stava capitolando alla conquista – da cui il titolo del saggio The Conquest of Cool. La logica che si tenta di spiegare, ovvero il motivo che avrebbe reso le culture giovanili ribelli così attraenti per i decisori aziendali, è quella della coolness.

Prima di Frank e dell’American Psychological Association, altri ne hanno tracciato le origini, trovandola nella cultura africana traghettata dall’America schiavista. Abbracciata dalla musica black e jazz, dai poeti beat, dagli intellettuali neo-romantici e dai ribelli anti-establishment disaffezionati, è stata successivamente incorporata nella pubblicità, nel branding, nel naming e in altre pratiche post-industriali come il fenomeno web di metà anni Novanta Cool Site of the Day (o CSotD). Di cose da dichiarare su quest’ultimo ce ne sarebbero parecchie, ma ci limiteremo a dire che si trattava di una piattaforma dove il cool veniva serializzato in hyperlink quotidiani, dove piccoli siti di coltivatori di pomodori si mescolavano a professionisti IT, il politicamente serio si mescolava al faceto, l’insolito seguiva il palese, e nel mezzo il cool si definiva come stile emotivo specifico del Ventesimo secolo. Al netto dell’accozzaglia sopra riportata, parrebbe che cool sia diventato un descrittore tuttofare per qualcosa vagamente piacevole o desiderabile.

2025: il report scientifico sulla coolness

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Stephen McCarthy//Getty Images
New York, Stati Uniti – 9 luglio 2025: Veduta generale di una pubblicità all’esterno del Madison Square Garden e della Penn Station.

Ma ecco che è arrivato il tempo dei dati: l’American Psychological Association rileva innanzitutto “un’ampia sovrapposizione tra l’essere percepiti come cool e l’essere percepiti come generalmente favorevoli”. Si ribadisce anche il concetto già esposto sulla mercificazione della coolness da parte di aziende globali come Nike, MTV e Hollywood: “un tempo simbolo di sfida controculturale, è diventato più mainstream e meno sovversivo”. Da cui la definizione di cool come gerarchia alternativa, laddove lo status è tarato sul capitale economico, mentre la coolness su un capitale di creatività e innovazione. Ma pur sempre nel perimetro del capitalismo.

Così appreso, l’essere uncool si rivelerebbe uno stigma: una macchina di risonanza magnetica ha mostrato un aumento del flusso sanguigno verso regioni cerebrali associate al dolore quando le persone esaminate consideravano il possesso di prodotti uncool (Quartz & Asp, 2015). Il report cita poi alcune connessioni con termini specifici, tra cui l’influenza, la ribellione, la popolarità, la moda, la tendenza, l’autonomia e la creazione di nuove idee. Essere artefici del flusso è cool. Essere nel flusso non lo è. Benché l’età delle caffetterie beatnik sia passata, il mettere in discussione le convenzioni e innovare sono parte di un significato comune e cristallizzato “da San Francisco a Santiago, da Sydney a Seoul”.

Infine, ecco la formula della coolness secondo il report scientifico (parlare di generica Scienza come Alma Mater parrebbe eccessivo): essere persone potenti, edoniste, avventurose, autonome, aperte ed estroverse. Sei pillole quotidiane e Brooklyn potrebbe tornare ad essere cool. Sempre a patto di erodere qualche stella al Four Seasons e bandire le Birkin dal quartiere: secondo Chloe Mac Donnell del The Guardian anche indossare una borsa di Hermes è uncool – chissà cosa ne direbbero Yusaku Maezawa e i suoi otto milioni appena spesi nella Birkin originale.

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