Quando a marzo 2021 il cantante Harry Styles è salito sul palco dei Grammy Awards con un blazer di Gucci a quadri giallo-bianco-neri e un boa di piume color lavanda, in quello che sembrava un omaggio al personaggio di Alicia Silverstone in Clueless (1995) piuttosto che un autoreferenziale revival, è parso chiaro che gli anni Novanta della moda fossero tra noi. Ann Demeulemeester, Anna Sui, Helmut Lang e Marc Jacobs per Perry Ellis dominavano allora le passerelle con slip dress, blazer sovradimensionati e destrutturati. La T-shirt – candidamente immacolata o volutamente sporcata di grafiche, scritte, loghi e motti – serviva come base funzionale di entrambe le correnti della decade: il minimalismo di un jeans a sigaretta + tee couture (paradossalmente, il più semplice dei capi rende i dettagli particolarmente rilevanti); il grunge di chi indossava capelli lunghi e disordinati, Dr. Martens graffiate, denim sdrucito e aperto a mezzo, giacche biker screpolate e magliette intime sopra (che è poi il look che valse a Marc Jacobs il licenziamento da Perry Ellis e la vincita del CFDA Award for American Womenswear Designer of the Year). Come cantava Curt Cobain, Come as you are. Certo, purché ci sia una T-shirt nel mezzo.
Aneddotica personale su una T-shirt degli AC/DC
C’è ancora qualcosa di molto rivelatore nell’indossare una T-shirt. Viene da sé (come un riflesso incondizionato pari al ritirare la mano da un oggetto bollente) cercare di decifrare lo slogan, l’immagine o anche solo l’etichetta, qualora manchi il resto. Recentemente, qualcuno su Instagram mi ha fatto i complimenti per una T-shirt nera degli AC/DC, congratulandosi per i miei efficientissimi gusti musicali. Per chi non lo sapesse, gli AC/DC sono stati la prima band a guadagnare più dal merchandising che dalla vendita dei biglietti durante un tour, e da allora le linee di abbigliamento con relativo logo sono diventate un elemento essenziale nel sostentamento del loro business. Il fatto non mi sorprende: ho acquistato la suddetta maglietta da Humana Vintage, per cinque euro, e non perché sia appassionata del genere heavy metal, ma perché avevo bisogno di una T-shirt nera e quella mi piaceva particolarmente – chissà cosa direbbe l’user in questione se sapesse che ascolto pop commerciale anni Dieci, Tech House e un’occasionale dose di reggaeton, ma mai heavy metal. Ad ogni modo, mi sento di dire che si tratti di un’eccezione – ho anche una T-shirt di Blanco, e i dj dei club che frequento sono arci-stufi della mia richiesta a fine serata di una sua canzone. In questo caso, la maglia non mente.
Antologia musicale e cinematografica dell’umile T-shirt
Tanti aneddoti per dire che l’umile T-shirt, appresa dalla coscienza collettiva quando nel 1951 Marlon Brando ne indossò una in Un tram che si chiama Desiderio, è entrata a un certo punto nella storia musicale, senza più uscirne. Come mezzo di identificazione (nell’America degli anni Quaranta non c’era appassionato di Frank Sinatra che non ricamasse sopra la propria maglietta); come strumento di partecipazione collettiva al dato fanclub (quelli di Elvis Presley e dei Beatles sono da citare fra i primi) e, infine, come ottimo strumento di marketing autopromozionale. Da quando la Winterland Productions, la prima azienda di merchandising musicale, è stata fondata nel 1968, non ci siamo più fermati. Il fenomeno si è esteso al punto da generare un vistoso mercato vintage – nel 2021 una maglietta dei Grateful Dead del 1967 è stata venduta a un’asta Sotheby’s per 17.640 dollari – oltre che una sua declinazione pop e fatalmente mainstream: pensiamo al meme Stop Being Desperate sulla maglia di Paris Hilton, lanciata nel 2005 e ancora sul mercato; allo slogan I Told Ya disegnato sulla maglietta realizzata da Jonathan Anderson per il film Challengers (2024) di Luca Guadagnino o al merchandising per il processo di Gwyneth Paltrow, con la scritta Gwynnocent stampata sopra. A quanto pare un coinvolgimento giudiziario è sufficiente a chi è famoso per accendere le macchine da stampa e cucito.
La T-shirt bianca come espediente narrativo in The Bear
Più recentemente, la mania è approdata anche sul piccolo schermo, con la T-shirt bianca indossata dal protagonista della serie The Bear Carmy Berzatto (Jeremy Allen White) eletta a co-protagonista. “Il James Dean del passavivande”– prendo a prestito la definizione di Sam Wolfson – cammina fra pentole e pensieri intrusivi che si schiantano nelle scene come piatti, indossando sempre un solo capo: una maglia del brand tedesco Merz b. Schwanen reperibile sul sito ufficiale a circa ottanta euro. L’ossessione di Carmy per la moda vintage – ad ogni difficoltà di conti si trova a vendere un pezzo firmato Levi’s come se ne avesse il forno pieno – ha immediatamente attivato i fan sulla via di Merz b. Schwanen, con l’e-commerce andato in tilt non appena l’etichetta è stata svelata da un acuto zoom.
Ma ecco che, cambio di stagione, cambio di T-shirt: con la quarta, il focus degli spettatori di The Bear si è spostato sulla T-shirt bianca di Sydney, la sous chef interpretata da Ayo Edebiri. Il capo è del brand indipendente Everybody.World, è clinicamente bianco, unisex, realizzato a Los Angeles da scarti industriali e costa un terzo di Merz b. Schwanen. Come spesso accade, una T-shirt bianca non è mai, semplicemente, quello che è. Coscienti del valore dei costumi di scena, i produttori ne ha hanno fatto un potente strumento narrativo: se Carmy indossa Ralph Lauren e alta gamma vintage, Sydney predilige costi ridotti, identità indipendenti, ruvide, che dicano della sua lotta per la parità di genere. Anche la denominazione unisex ha un valore narrativo in questo caso. Sulla praticità di una T-shirt bianca in cucina, si dovrà invece aprire un dibattito a parte.