Yahia al-Najjar aveva solo quattro mesi quando è morto per grave malnutrizione all’American Hospital di Khan Younis, nel sud di Gaza. Secondo il racconto della zia al New York Times, Yahia era nato sano, ma le sue condizioni sono precipitate in fretta. Viveva con la famiglia in una tenda fatta di una coperta e quattro pali. La madre, che sopravviveva con un solo pasto al giorno a base di lenticchie o riso, non riusciva più ad allattarlo. Il latte artificiale era fuori portata. Yahia è arrivato in ospedale in condizioni disperate. I medici hanno provato ad aiutarlo, ma non c’è stato nulla da fare.

La storia di Mohammed Zakaria al-Mutawaq, 18 mesi, è simile. È stato diagnosticato come gravemente malnutrito dalla clinica Friends of the Patient e dall’ospedale pediatrico Al-Rantisi. Sua madre, Hedaya al-Mutawaq, rimasta vedova a causa della guerra, vive con Mohammed e il fratellino Joud (3 anni) in una tenda su una spiaggia. Ogni giorno cammina “in cerca di cibo”, ha raccontato anche lei al New York Times. Le mense caritatevoli su cui si affida “non sempre riescono ad aiutarci. Da adulta posso resistere alla fame, ma i miei figli no. Andiamo a dormire affamati, e ci svegliamo pensando solo a come trovare qualcosa da mangiare. Non riesco a trovare né latte né pannolini”. I medici le hanno detto che l’unica cura possibile per Mohammed “è cibo e acqua”.

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Le donne: ultime a mangiare, prime a morire

A pagare il prezzo più alto sono le persone più vulnerabili: donne, bambini, anziani, malati. Come spiega Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU per i territori palestinesi occupati contro la quale l'amministrazione Trump ha emesso delle sanzioni: “Le donne soffrono in modo particolare, non perché più fragili, ma perché hanno un ruolo generativo e protettivo che si attiva a prescindere dall’avere figli. Siamo biologicamente predisposte ad accudire, nutrire, prenderci cura. E questa spinta resta, anche nelle fratture della nostra emancipazione”.

A Gaza nutrire e curare è diventato impossibile. Gli attacchi aerei, le case distrutte, gli sfollamenti, i colpi sparati sui civili in fila per gli aiuti alimentari: tutto concorre a un disegno di annientamento. Secondo il World Food Program, la crisi ha raggiunto “nuovi e sorprendenti livelli di disperazione, con un terzo della popolazione che non mangia da giorni”.

Il dottor Ahmed al-Farra, direttore del reparto pediatrico dell’ospedale Nasser, racconta al New York Times: “Anche io sto cercando farina per sfamare la mia famiglia. Nessuno è risparmiato dalla fame, nemmeno il personale sanitario”. Simile è il racconto di Mohammed Abu Mughaisib, vicecoordinatore medico di MSF a Gaza, in un video girato dal campo profughi racconta: “Negli ultimi mesi ho mangiato una volta al giorno. Ora solo ogni due giorni. Non perché non possa permettermelo, ma perché non c’è nulla da comprare. Ci prendiamo cura di pazienti che stanno morendo di fame mentre noi stessi stiamo iniziando a soffrire la fame”.

Fame di massa: cosa accade al corpo umano

“La morte per inedia è un processo lento e molto doloroso”, spiega la dottoressa Serena Belli, endocrinologa a Parma specializzata in disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. “Quando una persona smette di nutrirsi, il corpo inizia a consumare le sue riserve per sopravvivere”.

In una prima fase, l’organismo attinge alle scorte di glicogeno — zuccheri complessi immagazzinati nel fegato e nei muscoli — per mantenere stabile la glicemia tra un pasto e l’altro. Ma queste riserve durano solo circa 24 ore. Dopo, il corpo passa a usare il tessuto adiposo e, successivamente, la massa muscolare.

Questo meccanismo produce corpi chetonici, un’alternativa al glucosio come carburante per il cervello. È un sistema di emergenza che garantisce i processi vitali, ma ha un costo: il catabolismo, ovvero l’autodistruzione dell’organismo per produrre energia.

“Il corpo si consuma — continua Belli — partendo dai grassi sottocutanei e dalla muscolatura scheletrica. Poi attinge anche ai grassi viscerali e alla muscolatura interna, come quella intestinale, fino ad arrivare al cuore e ai reni”.

Questi adattamenti permettono di sopravvivere per un po’, ma col tempo compromettono il funzionamento degli organi. Il fegato, per esempio, può sviluppare insufficienza, aumentando il rischio di emorragie e edemi per la scarsa produzione di albumina.

Anche il midollo osseo, che produce globuli rossi, bianchi e piastrine, si deteriora: diventa meno ricco di cellule e più “gelatinoso”. Il risultato è anemia, ma anche bassa difesa immunitaria, che espone a infezioni batteriche e virali.

“Il sistema cardiovascolare è tra i più vulnerabili — spiega ancora —. La riduzione della frequenza cardiaca, inizialmente adattativa, può degenerare in aritmie fatali. Il cuore, semplicemente, non riesce più a garantire un battito efficace.”

Il cervello risente della fame con confusione mentale, letargia, difficoltà di concentrazione fino a casi estremi di coma. I polmoni, infine, soffrono sia per l’anemia (che riduce l’ossigenazione) sia per la perdita di capacità vitale, fino a causare insufficienza respiratoria.

“All’inizio, il corpo tenta di compensare — conclude Belli — ma se la deprivazione di cibo continua, si va verso una grave insufficienza multi-organo. Cuore, polmoni, fegato, cervello: tutto si spegne, e si muore per infezioni, scompensi cardiaci o respiratori”.

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Aiuti bloccati, cibo come arma

Il numero dei bambini morti per malnutrizione cresce ogni giorno. La maggior parte, come Siwar Barbaq (11 mesi, meno di 4 kg di peso), era nata sana. Il direttore dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato:

“Questa è fame di massa, e ha una causa precisa: il blocco degli aiuti umanitari. È una tragedia provocata dall’uomo”.

Dall'inizio del blocco totale, il 2 marzo, almeno 57 bambini sono morti per fame. La malnutrizione acuta supera il 10% nella popolazione generale e raggiunge il 20% tra le donne incinte e in allattamento.

Dopo la fine della tregua a metà marzo, Israele ha bloccato per circa 80 giorni l’ingresso di ogni merce, aggravando una situazione già disperata. I convogli ONU venivano distribuiti in oltre 400 punti. Oggi restano solo cinque punti fissi, gestiti da appaltatori privati statunitensi sotto la supervisione della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta da Israele.

Nel frattempo, Israele ha escluso l’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, complicando ulteriormente il sistema. La distribuzione degli aiuti è diventata sporadica, pericolosa, insufficiente.

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Israele, Hamas e la guerra degli aiuti

Israele accusa Hamas di deviare i convogli e creare una “narrazione della fame”. Le organizzazioni umanitarie rispondono che sono le autorità israeliane a impedire l’accesso agli aiuti e a non garantire vie sicure per i soccorritori. Una lettera firmata da 109 agenzie internazionali, tra cui Medici Senza Frontiere, Amnesty e Oxfam, denuncia:

“Tonnellate di cibo, acqua e medicine sono bloccate ai valichi o nei magazzini, inaccessibili. Mentre la carestia si diffonde, i nostri colleghi e le persone che aiutiamo si stanno esaurendo”.

Le ONG chiedono un cessate il fuoco immediato, l’apertura dei valichi e il libero flusso degli aiuti. Oggi Israele ha dichiarato l’inizio di una pausa umanitaria e ha lanciato cibo dall’alto insieme a Giordania ed Emirati. Ma si continua a morire di fame.

Il premier Netanyahu nega l’esistenza di una “politica della fame”. Ma persino Donald Trump, suo alleato, ha affermato:

“Quei bambini sembrano davvero affamati. A Gaza c’è tanta gente che sta morendo di fame”.

Intanto, 58 ex ambasciatori italiani hanno scritto una lettera aperta a Giorgia Meloni per chiedere il riconoscimento dello Stato palestinese.

“Il silenzio e la neutralità di fronte al genocidio costituiscono complicità”, scrivono. “L’Unione Europea deve agire. O perderà credibilità, influenza e autorevolezza morale nel mondo.”

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