Quanto vale il sorriso di un bambino? O la bellezza di un tramonto, l’emozione di un malato che torna alla vita, la complicità con un’amica in difficoltà? Ovvio: sono cose senza prezzo. Ma nell’apparente banalità della risposta si nasconde la potenziale trappola: ciò che non ha prezzo viene spesso considerato senza valore; e in questo buco nero rischia di finire buona parte del lavoro delle donne. Se non riusciamo a misurarlo nell’unico modo – attenzione, in apparenza unico – che la scienza economica ci consegna, cioè la possibilità di dare un prezzo alle attività di cura (quasi totalmente femminili), questo “qualcosa” quasi scompare; peggio, rischia di essere considerato un deficit nei conti pubblici. E qui il cerchio si chiude, spiega l'economista-sociologa Emma Holten, attivista femminista e consulente di politiche di genere. Membro del Comitato consultivo sui diritti delle donne di Human Rights Watch e autrice del volume Deficit, perché l’economia femminista cambierà il mondo, edito da La Tartaruga.

Di “deficit” parlano alcuni articoli nel Nord Europa: nella partita del dare e dell’avere, tasse e contributi versati dalle donne sono inferiori rispetto a quello che prendono (dallo Stato); insomma, ci sarebbe un gap di colore rosa, considerando per esempio i costi per le gravidanze e i permessi per prendersi cura di persone anziane, malate o semplicemente bisognose di attenzioni, come i bambini (con conseguente minor tempo dedicato al lavoro retribuito e discontinuità nelle carriere). Tutto quello che – da sempre e in modo intuitivo, anche senza essere economiste – le donne hanno considerato le dolorose discriminazioni di cui sono oggetto. «Il femminismo per me è sempre stato un tentativo di capire cosa sta succedendo. La gente ha sempre detto che non si può fare in modo diverso. E si è sempre sbagliata», scrive Holten nel suo libro.

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Cura, occupazione, libertà

Persino nella progressista Danimarca, ogni giorno le donne lavorano in casa mediamente 54 minuti in più degli uomini; e sono già fortunate, in Italia trascorrono il 20% delle giornate in lavori di cura non retribuiti, contro il 7,8% degli uomini. Perché l’accudimento, l’educazione, il sostegno e l’ascolto dei bisogni (anche professionale, per esempio negli ospedali) non è solo delle donne, ma la loro presenza rimane preponderante. E pur senza prezzo, rappresenta la vera ricchezza di una società. «Il deficit crea il surplus, questo è il paradosso in cui siamo intrappolati» sostiene Holten. Che spiega: «Non possiamo misurare il valore con un numero, ma la questione politica è: che tipo di società vogliamo? Vogliamo gente in salute, felice e mentalmente equilibrata?». Altrimenti, non ci resta che misurare le conseguenze negative della mancanza di cura, cioè ansia, depressione e insonnia. Dunque l’accudimento, il tempo impiegato a rendere felici (o meno tristi) le persone è cruciale; la mancanza di ciò ha un costo, anche sociale.

C’è poi un pericolo quasi più insidioso, quello di considerare “naturalmente femminile” l’accudimento, in tutte le sue forme; non pagato, prezioso ma al tempo stesso auto-limitante. Su un altro piano l’economista e professoressa all’Università di Torino Elsa Fornero lo spiega con forza: «Se parliamo di integrazione, di utilizzo delle donne alla pari degli uomini, questo significa più produzione e più reddito, quindi in un vantaggio per tutti. Ma la cosa più importante è l’indipendenza economica, chi non lo è non è libero fino in fondo. Persino se è lo Stato a pagare. Per questo ritengo che ci sia un valore sociale, oltre che individuale, nel raggiungerla», spiega Fornero. Ci siamo vicini? Non ancora. In realtà va bene nello studio (quasi il 60% dei laureati in Italia è donna) ma nelle facoltà scientifiche le donne scendono al 15,76% contro il 33,81% degli uomini secondo il recentissimo rapporto sul Global Gender Gap, prodotto ogni anno dal World Economic Forum. Sul lavoro poi la distanza è ancora molta: le donne sono poco sopra il 41%, oltre 17 punti percentuali in meno degli uomini. L’Italia ha un ritardo nel ritardo, ma non è la sola: sempre secondo il Global gender gap ci vorranno 123 anni per raggiungere la parità di genere. Del resto, tra gli economisti solo una su quattro è donna. Lo svantaggio è reale dal punto di vista delle carriere – secondo il quotidiano francese Le Monde nelle istituzioni finanziarie le dirigenti sono ferme al 16% – ma vale anche sotto il profilo accademico: la prestigiosa organizzazione internazionale Research Papers in economics (RePec) ricorda che tra i 100 economisti più influenti al mondo, solo cinque sono donne. E in oltre 120 anni di storia, solo tre (Elinor Ostrom, Esther Duflo, Claudia Goldin) hanno ricevuto il Nobel per l’economia.

Percorso complicato

Claudia Goldin nel 2023 ha ottenuto il riconoscimento “per aver migliorato la nostra comprensione dei risultati del mercato del lavoro femminile”. Studiando le differenze di genere nel mondo del lavoro, Goldin ha analizzato perché le donne guadagnano meno a parità di occupazione (il gap è del 13% rispetto agli uomini, in ambito Ocse), individuando tra i problemi più ricorrenti la genitorialità (il lavoro di cura ricade spesso sulle spalle delle donne), le interruzioni di carriera dovute alla nascita dei figli e un diverso approccio nei confronti di uomini e donne (se non proprio discriminazione). La riprova? Negli anni Settanta in America si svolsero audizioni “al buio” (senza che la giuria vedesse i candidati) per assumere musicisti nelle orchestre sinfoniche. I risultati, analizzati dall'economista, hanno mostrato che in questo modo le donne hanno avuto maggiori possibilità di essere selezionate.

Ma davvero le capacità di accudimento devono essere solo al femminile? «Competenze e capacità che creano valore non sono un fatto biologico, ma qualcosa che le donne imparano durante la vita e a cui bisogna guardare con rispetto, come si farebbe nei confronti di un meccanico, un ingegnere o un architetto» spiega Holten. È un punto molto importante: gli uomini si perdono molte grandi gioie della vita non dedicandosi alle attività di cura». L'economista tuttavia è consapevole che nulla è a senso unico: prendersi cura (di noi stessi e degli altri) «è un privilegio e un peso allo stesso tempo. Lottiamo per farlo e lottiamo per liberarcene», spiega, ricordando che il femminismo italiano storico è stato pioniere di questo pensiero.

Donne, e spesso economiste, che hanno affrontato i temi della discriminazione e dato risposte concrete. «Le scelte che facciamo sul piano personale determinano il nostro benessere circa per il 50% - spiega ancora Fornero - il resto è determinato dalle scelte collettive: molto dipende dalla politica economica, dalla tassazione, dalla spesa pubblica, fattori che riguardano la vita di tutti noi. A questo punto non c’è nemmeno bisogno di leggi specifiche, quello che manca è una mentalità diffusa di parità vera: c’è sempre un “ma” che rende accidentato il percorso. E la mentalità si costruisce, nella scuola, nella famiglia, nei comportamenti delle istituzioni. Su questo c’è ancora molto da lavorare». L’inciampo può essere dietro l’angolo: ce lo mostra una giovane scrittrice taiwanese, Lin Hsin-Hui, che ha appena pubblicato un romanzo in cui immagina un futuro (vicino) dove a tirare le fila è l’intelligenza artificiale (Intimità senza contatto, Add editore). Ebbene, l’armonia domestica della coppia prevedeva che “la metà umana si limitasse alla gestione delle faccende domestiche” mentre “la metà sintetica si occupasse del lavoro fuori casa”. L’economia femminista deve cambiare il mondo ma anche la vita delle donne, per funzionare.