Ci sono categorie di cui in Italia la politica non si occupa. Le lascia ai margini, le tratta con la cura del silenzio così da renderle invisibili e senza voce. Succede alle partite Iva, puntualmente escluse, per esempio, dagli incentivi per le famiglie, che riguardano sempre e solo madri con contratti a tempo indeterminato, nonostante le libere professioniste siano circa 1 milione e 600 mila, in Italia. E succede alle persone vedove, che numericamente sono importanti, essendo quasi 4 milioni e mezzo, ma giuridicamente finiscono in un limbo scevro di diritti e garanzie. Come quel lutto con cui dover imparare a convivere fosse in qualche modo anche una colpa.

Le "famiglie vedove" sono famiglie che si ritrovano a dover fare i conti con una normativa iniqua e mai aggiornata, che non le mette in condizione di affrontare la perdita, e tutte le conseguenze che ne derivano, con serenità. Della loro condizione non si parla, così come non si parla del fatto che convivano con storie di lutti familiari per malattie, incidenti o, peggio, omicidi avvenuti all'interno della coppia. Le famiglie vedove sono purtroppo considerate dallo Stato come una non famiglia. Una volta cioè che muore il genitore, ciò che ne rimane è solo un gruppo di persone non più legate da rapporti familiari: il genitore che lavora diventa per lo Stato un single arricchito e il figlio non è più figlio, ma un minore percettore di reddito. Lo Stato riserva così a questi soggetti “deboli” un trattamento economico e fiscale iniquo e distorto per il solo fatto di aver perso un familiare.

Nessuna tutela, nessun aiuto, solo il vuoto

Tutto questo è oggetto da tempi di denuncia da parte dell’associazione "Una buona idea” (trovate il sito qui), nata per rappresentarli tutti: vedove, vedovi, anziani, giovani, con figli oppure senza. Esemplare, per entrare nel merito dell'ingiustizia a monte di quest'associazione, la storia di Valentina Pennati, che ha 41 anni e ha perso suo marito nell’ottobre del 2019. “Ero incinta del nostro secondo figlio - ha raccontato a Il Giorno lo scorso aprile - e da quel momento, accanto al lutto, è arrivata anche la consapevolezza dura e ingiusta di vivere in un sistema che ignora chi si trova nella mia condizione. Nessuna tutela specifica, nessun aiuto economico, nessun riconoscimento giuridico: semplicemente il vuoto. Veniamo spesso definiti “single“, una parola che trovo poco adatta, troppo moderna e un po’ patinata. Essere un genitore unico è ben altro: significa essere soli, totalmente, nel gestire ogni aspetto della vita quotidiana, dall’educazione dei figli al lavoro, passando per tutte le responsabilità e difficoltà che ne derivano. Così ho sentito il bisogno di far sentire la mia voce e, insieme a quella di tante altre famiglie come la mia, mi sono unita all’associazione “Una Buona Idea“. Ora siamo in tre gruppi nazionali che vogliamo portare avanti i nostri diritti”.

Un ricorso contro l’ingiustizia

Genitori unici e genitori vedovi da oltre 5 anni sono esclusi dalla maggiorazione dell’assegno unico familiare: contro questa è stato depositato a fine aprile un ricorso firmato da diverse organizzazioni no profit, tra cui, appunto, Una buona Idea, ma anche Smallfamilies e Mykes S.r.l. Impresa Sociale, che avevano annunciato un’azione legale contro la norma che esclude dalla maggiorazione dell’assegno unico familiare sia i genitori unici sia i genitori vedovi da oltre cinque anni. “Una chiara violazione del principio di uguaglianza”, spiegavano tre mesi fa. Anche perché le ultime rilevazioni Istat evidenziano come le famiglie monogenitoriali siano tra i nuclei più vulnerabili dal punto di vista economico. Nonostante siano tante. Secondo i dati Istat del 2019, infatti, una famiglia su dieci in Italia è monogenitoriale. Per essere precisi, il totale delle famiglie italiane ammonta a 25,7 milioni e all'interno di queste troviamo 8,6 milioni di nuclei unipersonali (persone single senza figli) e 17,1 milioni di nuclei con almeno due persone. Tra questi, i nuclei senza figli sono il 31,5% del totale mentre i rimanenti 11,6 milioni sono famiglie con figli tra cui 2,8 milioni di famiglie con un solo genitore. Secondo Openpolis, poi, i nuclei monogenitoriali sono in aumento di anno in anno: agli inizi degli anni 80, infatti, le famiglie composte da genitore più uno o due figli minori erano solo 468mila.

Un’intera fetta d’Italia ignorata dalle politiche familiari

Eppure sono politicamente invisibili. In Italia, infatti, alla scomparsa di un genitore, la pensione di reversibilità viene suddivisa in parte alla madre e in parte ai figli. Ciò significa che i minori orfani diventano per il fisco percettori di reddito, e se tale reddito supera la soglia fissata per legge di 2.840 euro, non possono più essere considerati a carico del genitore superstite, il quale perde esenzioni e benefici. Ogni bambino deve presentare la sua certificazione unica. E se non si conoscono le norme fiscali, capita che il genitore superstite si veda recapitare la richiesta dell’Inps di restituire migliaia di euro. Da Mestre lo scorso 21 giugno le famiglie vedove hanno alzato la testa, chiedendo al Parlamento nuove norme e tutele.

Le tre socie fondatrici di Una buona idea, ovvero Domi Russo, Chiara Pedron e Manola Tegon, hanno delineato con chiarezza il quadro normativo attuale, evidenziando le gravi storture fiscali, tributarie e sociali che oggi penalizzano chi vive questa condizione. Alcuni esempi: la pensione è concessa solo se vi sono almeno 15 anni di contributi del defunto. I minori che diventano intestatari di Certificazione Unica sono equiparati a lavoratori. Il reddito della pensione indiretta pari al 60 % si cumula agli altri redditi del genitore superstite, con aliquote Irpef più alte e decurtazioni di aiuti. Per non parlare delle difficoltà di conciliare lavoro e cura dei figli.

L’associazione Una buona Idea è nata, come è scritto nello statuto, per «riportare giustizia, eguaglianza fiscale e dignità alle famiglie vedove e ai figli orfani». Perché essere genitore non è facile. Essere l’unico genitore è ancora più difficile. Come spiega molto bene la storia di Valentina Pennati, che vive ogni giorno il peso di essere l’unica figura di riferimento per i propri figli. L’unica a organizzare le giornate, gestire il lavoro, affrontare le malattie, e badare a ogni necessità. Spesso senza alcun aiuto. “L’anno scorso, per esempio, mio figlio è stato a casa per 20 giorni a causa di una broncopolmonite e io dovevo stare con lui – ha raccontato– ovviamente il mio stipendio varia di molto quando prendo permessi così lunghi non retribuiti”. Quest'ingiustizia, specie per un governo che ha messo la famiglia così al centro del proprio programma, deve trovare delle soluzioni. Alcuni spunti, per altro, li fornisce la stessa associazione: Istituire permessi retribuiti almeno all’80% in caso di malattia del figlio, estendendoli fino al compimento degli 8 anni di età (art. 47 del Trattato Unico 151/2001). Nel settore pubblico, i permessi sono retribuiti al 100% fino ai 3 anni del figlio. I permessi dovrebbero essere concessi a una sola figura di accudimento. Semplificare le pratiche burocratiche coinvolgenti il Tribunale dei Minori o il Giudice Tutelare, relative a successioni e benefici di inventario. Il genitore superstite, salvo casi di grave inabilità, potrebbe essere nominato tutore unico dei figli. Questo atto lo renderebbe “plenipotenziario” nelle decisioni economiche, come la vendita di beni mobili e immobili. Prevedere una carta prepagata o un bonus per le spese mediche e farmaceutiche dei figli. Introdurre anche un voucher per assumere regolarmente una babysitter, riducendo il carico su altri caregiver, come i nonni. Non una rivoluzione, insomma, eppure nulla di tutto questo è ancora in agenda del governo Meloni.