Nel 2010 Francesca Albanese lavorava all’ufficio legale delle Nazioni Unite a Gerusalemme e spesso era a Gaza. Un giorno visita una scuola dove sono esposti dei dipinti eseguiti dai piccoli studenti. «Ne vedo uno incredibile, mamma, bimba e una colomba, l’aveva fatto una bambina di 11 anni», ricorda. «Le spiego che lo vorrei comprare, ma lei mi fa capire che no, è per la scuola, dovrebbe chiedere il permesso». Molti anni dopo Albanese è relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi occupati, cerca un’immagine per una conferenza e trova dei dipinti colorati, soavi, gentili: «Ho capito subito che erano suoi, senza sapere che quella bambina era diventata un’affermata pittrice», racconta. Lei, Malak Mattar, è una delle protagoniste del suo nuovo libro, Quando il mondo dorme (Rizzoli), che parla di nakba, occupazione, apartheid e genocidio attraverso storie di vite vissute. «È di Malak l’immagine della donna in copertina, forte e dolce come le palestinesi, che sono radici ma anche ali», dice.

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IDA MARIE ODGAARD//Getty Images
Francesca Albanese

Le donne e i bambini sono le prime vittime di quello che sta accadendo a Gaza?

Sì, in Palestina, come in tutti i conflitti, le donne soffrono in modo particolare, non perché siano più fragili degli uomini, ma per via di quella funzione generatrice e protettrice che abbiamo a prescindere dall’avere figli. Siamo biologicamente predisposte ad accudire, nutrire, prenderci cura. E ce lo portiamo dietro anche negli scompigli della nostra emancipazione.

Questo significa che gli abusi sui bambini sono anche abusi sulle donne?

Certo. In una società in cui si colpiscono i bambini c’è già un preoccupante intento di distruzione di un popolo alle sue radici. Avevo iniziato a documentare questo fenomeno prima del 7 ottobre, quando in media venivano arrestati 700 bambini palestinesi all’anno dall’occupazione israeliana, che è illegale. È un sistema aberrante documentato dall’Onu da vent’anni, che ora ha preso ancora più vigore. E come può rivivere la forza generatrice delle donne dopo 60 mila persone uccise di cui 18 mila bambini in poco più di venti mesi?

Il rapporto di una Commissione d’inchiesta indipendente dell’Onu denuncia la violenza sessuale come procedura standard per punire la popolazione in Cisgiordania e a Gaza: è così?

Esatto. Stupri e minacce di violenze contro detenuti e detenute palestinesi venivano praticati anche prima, ma ora è una modalità sistematica e diffusa. A febbraio 2024 ho partecipato a un’inchiesta su donne vittime di abusi all’interno di carceri israeliane. Non sempre si tratta di stupri: può significare essere fotografate senza vestiti, subire perquisizioni invasive da personale carcerario magari maschile, dover mostrarsi nude davanti a familiari e vicini, assistere a scene di violenza o sodomia inflitte ai propri cari. Atti violentissimi, che marchiano un popolo. Perché sia genocidio, non è necessario usare il machete o i campi di concentramento. Non è il mezzo, ma l’intento.

Si parla di violenza riproduttiva: nei primi nove mesi del conflitto sarebbero nati 50 mila bambini, ma dopo?

A Gaza la popolazione pre-genocidio era di quasi 2 milioni di persone, poi le nascite si sono abbassate drasticamente, visto che non ci sono le condizioni per fare figli, oltre al fatto che nessuno va più negli ospedali a partorire e le eventuali nascite sfuggirebbero alle statistiche. Non tutti gli ospedali poi hanno, o meglio, avevano, il reparto maternità: l’unica struttura interamente neonatale è stata bombardata ancora prima dell’ottobre 2023.

Anche la più grande clinica per la fertilità della Striscia è stata bombardata…

Sì, conteneva circa 4 mila embrioni congelati ed è stata distrutta deliberatamente. Oggi dei 36 ospedali esistenti ne sono rimasti in piedi 13 che funzionano a malapena. Sono stati ammazzati più di un migliaio tra medici e altro personale sanitario.

Mancano acqua, assorbenti, privacy: che generazione sarà quella delle bambine che diventano ragazze così?

L’igiene personale è una questione cruciale non solo per le adolescenti, ma per tutte le donne, specie palestinesi, che anche nella povertà hanno sempre grande cura della persona. È una situazione drammatica a cui non pensiamo mai e questo parla più della nostra miseria che della loro. La disumanizzazione di cui sono vittime è stata resa possibile dall’indifferenza di tanti di noi.

Il dolore delle donne palestinesi è stato poco raccontato: perché non se ne sa abbastanza o perché in una società patriarcale non è riconosciuto?

Che la specificità della dimensione femminile a Gaza non venga raccontata dall’Occidente ha a che fare con il loro essere palestinesi. Lo ha spiegato bene il direttore di Palantir, una delle compagnie tecnologiche che hanno investito in Israele e continuano a farlo malgrado il genocidio. Contestato da una donna che aveva perso la famiglia e lo accusava di produrre tecnologia per annientare i palestinesi, ha risposto: «Sì, la maggior parte dei quali, presumo, terroristi». Un’ammissione di responsabilità da parte di chi ritiene che i palestinesi siano “ammazzabili”. Le cifre però dicono che il 70 per cento delle vittime sono donne e bambini, dato costante dall’ottobre 2023.

Sta cambiando qualcosa ultimamente nell’opinione pubblica?

Le coscienze si stanno svegliando, nelle università sono ricominciate le manifestazioni, nelle istituzioni di molti Paesi si comincia a parlare di genocidio, sanzioni, tagli agli armamenti, di sospendere l’accordo di partenariato con Israele. È il frutto dell’impegno della società civile, della gente comune che è scesa in piazza, ha scritto lettere, aderito a campagne di boicottaggio, fatto sit–in. Per questo credo che in Palestina e in quella parte di Israele che si oppone a genocidio e apartheid ci sia la salvezza di tutti noi. È la lotta, anche simbolica, contro un sistema politico, economico e finanziario legato alla cultura delle armi, che questa guerra l’ha voluta e da questa guerra ha tratto profitto.

Crede che le donne potranno avere un ruolo attivo nel futuro della Palestina?

Lo credo, certo, la Palestina per me è una questione femminile e femminista, perché è anche un luogo in cui il patriarcato si declina in tanti modi. È vero, c’è un uso testosteronico del potere come autorità anziché come rigenerazione e possibilità, ma non esiste un altro posto come la Palestina, anche in quanto simbolo, dove oggi si sente e si sperimenta la sorellanza come partecipazione attiva e alleanza per salvare, e non per distruggere. E dico che se finisce l’apartheid le palestinesi, e le israeliane che con loro vogliono la fine del suprematismo etnico religioso in Israele, ce la faranno, e la Palestina sarà un Paese faro per tutti noi. Ma bisogna farlo succedere.