Nella foto che ha dato spunto a questo pezzo si vede una donna in tenuta da maratoneta che con un braccio regge un neonato piccolo ma non piccolissimo (direi un dieci chili di bambino, ma sono brocca nell'indovinare pesi e misure di infanti) attaccato al seno, e con l'altro mangia una fetta di anguria.

Per non sgocciolare sul pargolo (che si scoprirà essere pargola, di nome Pepper), la madre è nella tipica posizione del mezzo squat con busto inclinato in avanti, che noi tutti abbiamo quando non vogliamo insozzarci mentre mangiamo velocemente e voracemente, ma a differenza nostra lei, che si chiama Stephanie Case e nella vita è un'avvocata canadese per i diritti umani, aveva anche la fretta di chi oltre a nutrire la progenie, deve anche vincere una maratona.

Cosa che ha fatto, sei mesi dopo aver partorito.

Allattare durante una maratona: gesto estremo o libertà materna

La foto, o meglio le foto, di Case che allatta nei vari punti ristoro della Ultra-Trail Snowdonia, una delle gare più dure del Regno Unito, con l'aiuto del suo compagno John, riempiono il profilo Instagram dell'atleta, che s'è data il nickname di theultrarunnergirl, e per quanto mi riguarda non sono altro che immagini e ricordi dell'esperienza personale, e a quanto pare (glielo auguro) felice, di una sportiva che è riuscita in un'impresa difficilissima, senza rinunciare al desiderio di allattare al seno la figlia.

Il fatto che guardarle faccia nascere in me il pensiero "mio dio che incubo", è una reazione altrettanto personale, che non ha alcun valore universale, e che riflette semplicemente il mio modo di guardare sia all'allattamento che alla disciplina sportiva estrema.

Maternità e retorica: il problema della sacralizzazione

Conta qualcosa, nelle dinamiche che muovono il mondo e le società? Direi proprio di no, ma so che per questo pensiero sarò giudicata e redarguita, perché l'allattamento è sacro e le donne possono tutto, e chi sono io per non allinearmi al plauso verso questi due dogmi assoluti.

Il fatto, o a mio avviso il problema, è che non c'è quasi mai un filo di ironia, sia quando ci si spende in racconti da fiaba in tinte pastello, sia quando si concettualizza il tema della maternità. Diventa tutto subito sacro, solenne, grave. Naturalmente ci sono situazioni che necessitano quei toni, ma è anche vero che oggi tutto quello che riguarda la vita di una mamma, specie se di bambini piccoli, diventa centro di un trattato filosofico.

Penso che prima non fosse così, e che le nostre madri veleggiassero nel ruolo con meno ingombri ideologici. Penso anche che questa serietà sia propria di una generazione di genitori trenta-quarantenni di, spesso, un unico figlio, che si concedono poca leggerezza, cosa che invece sarebbe utile, anche solo per risollevarsi il morale, per darsi una pacca sulla spalla.

Le reazioni social: tra mitizzazione, confronto e senso di inadeguatezza

Basta, per capire la portata di questa gravitas che aleggia intorno alla maternità che sembra non essere più fatta di scelte personali ma di assunti universali, di precetti da trasmettere, di ideali da incarnare, farsi un giro nei commenti agli scatti di Stephanie Case, che oscillano tra una Sharon Stone che dalla foto con anguria passa direttamente al "e possiamo anche governare un Paese", ai messaggi di scoramento di madri che "mentre lei allatta e vince una maratona io non riesco nemmeno a fare una lavatrice", alle varie declinazioni del concetto "la forza delle donne è senza limiti".

Tutto serissimo, tutto pesante e appesantito, e alle ortiche l'idea che quella di Case sia semplicemente la storia di Case, della sua scelta, che è certamente straordinaria, nel senso di "fuori dall'ordinario", rara, se pure preziosa non saprei, dipende dai punti di vista, ma di certa non nella norma. No: non siamo più in grado di prendere una vicenda per quello che è, o la glorifichiamo, o la affossiamo (che ci sono anche i detrattori, quelli per cui la maratoneta allattante è una mezza matta), o ci mettiamo a confronto per uscirne a nostra volta o glorificati o con le ossa rotte. Eppure, andando a cercare un po' di informazioni su chi sia questa "ultra runner", si avrebbe come risultato l'insensatezza assoluta di un paragone con lei, che, giusta per darvi un'idea, nel 2014 dopo l'ultramaratona che aveva fatto in Vietnam, ha lanciato Free to Run, un'organizzazione no-profit dedicata a "creare opportunità per le donne in Afghanistan di correre e sviluppare le loro capacità di vita e di leadership, in modo che potessero far parte della guida del cambiamento sociale nel loro paese". Case ha lanciato Free to Run mentre lavorava in Sud Sudan come membro delle forze umanitarie che aiutano la popolazione vittima del terribile conflitto ancora in corso. Ma Stephanie Case ha anche vissuto, corso e lavorato in Afghanistan, e anche quando se n'è andata il suo programma di corsa è andato avanti fino al 2021, quando i talebani hanno ripreso il controllo dell'Afghanistan, e il personale di Free to Run ha dovuto evacuare il paese, bruciare tutti i loro registri e chiudere i loro uffici. Da allora la base del programma è migrata in Iraq e l'organizzazione continua a fornire opportunità per le donne in luoghi in cui altrimenti non esisterebbero.

La maternità tra aborti, fecondazione assistita e ritorno alla corsa

Prima di avere Pepper, Case ha avuto due aborti spontanei e ha raccontato di come diverse persone abbiano cercato di farla sentire in colpa perché aveva continuato a correre anche da incinta.

Ha detto al magazine I Run Fur di come la gente le avesse "piantato quel seme nella testa e questo ha iniziato a influenzare il mio rapporto con la corsa". Spiega: "Improvvisamente, la cosa che fino a quel momento mi aveva dato gioia e che mi aveva tolto lo stress stava diventando qualcosa che aveva appena causato uno dei momenti più orribili e di più grande dolore della mia vita".

Quando è rimasta incinta una seconda volta, Case ha ridotto la sua corsa, ma ha avuto di nuovo un aborto. Non volendo rinunciare a mettere su famiglia, Case si è rivolta alla fecondazione in vitro (FIV), pianificando il suo programma di lavoro, oggi incentrato su Gerusalemme, Israele e Gaza intorno al suo ciclo e tornando in Europa per i trasferimenti di embrioni.

Immersa nel conflitto in corso, Case ricorda di aver detto: "Quando sei circondato dalla morte ogni giorno, è molto difficile chiedere al tuo corpo di fare una vita". Ma Case credeva in quello che stava facendo, e alla fine un trasferimento di embrioni ha portato alla nascita di sua figlia, Pepper, nel novembre del 2024. Tornata a correre, ha vinto.

Una storia straordinaria, non un manifesto

"Lo scorso fine settimana, senza aspettative, a soli sei mesi dall'avere avuto Little Pepper e tre anni dopo la mia ultima gara a causa di aborti ricorrenti e fallimenti in vitro. È stato davvero come andare in bici - ogni chilometro che passava mi ricordava che non avevo perso nulla in questi ultimi tre anni. Infatti, ho guadagnato molta più gioia e forza da questo sport come mamma di quanto abbia mai fatto prima. Mentre mi si spezzava il cuore lasciare la piccola Pepper alle stazioni di soccorso, volevo mostrarle quanto possono essere fantastiche le mamme runner. Che tu stia pensando di essere mamma, che tu sia incinta o che tu sia una neomamma, non aver paura di continuare a porti grandi obiettivi. Tutti hanno un'opinione su cosa dovrebbero o non dovrebbero fare le neo mamme. Dovrei passare così tanto tempo lontano dal mio bambino? È dannoso per il mio corpo? E la mia scorta di latte? Il mio coach mi ha aiutato ad affrontare queste domande e le pressioni sociali che derivano dall'essere una neo-mamma runner, ma dobbiamo lavorare insieme per rimuovere la pressione e fornire maggiore supporto. Non esiste "ritorno" dopo il parto. C'è solo la fase successiva".

Essere madri e uscire di casa: un atto semplice, ma rivoluzionario

Insomma, Case ci ha provato a dirci di non azzuffarci sotto alle sue foto, che la sua storia è solo sua e anche se ne è fiera, non ha la pretesa di insegnare granché a nessuno.

Purtroppo, la premessa è sempre stata che nessuno ha il diritto di giudicare, ma pare che questa regolina valga solo se la persona in oggetto è d’accordo con noi, altrimenti può pure crepare. C’è una cosa, però, che mi sento di dire e che anche Stephanie Case, pur nella sua straordinarietà ci ha tenuto a sottolineare: le madri devono uscire di casa.

Negli ultimi anni si dice loro di dormire quando dorme il bambino, di allattare a richiesta, di essere genitori ad alto contatto, e questo fa sì che ci si chiuda in casa. Ci si chiude in casa perché si ha paura che il bambino pianga in strada o al bar, o di dover allattare in pubblico o di dover dare il biberon in pubblico (quale delle due situazioni fa alzare più sopracciglia sarebbe interessante saperlo), e allora tanto vale stare in salotto.

Per carità, uscite. Non correte, se vi fa schifo, non camminate a passo svelto, se non ne avete voglia, ma uscite, magari con altre madri dotate di molto senso dell'umorismo con le quali potervi prendere beatamente in giro a vicenda, e darvi quella famosa pacca sulla spalla.