Due anni fa su Elle Lidia Ravera, alla domanda "a che cosa serve legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza?", rispondeva: "A rimediare a un errore, a depotenziare una violenza, a ribadire la libertà femminile di disporre del proprio corpo, ma soprattutto a evitare che venga al mondo un infelice. Infelici sono i figli delle cattive madri. E cattive madri sono, non sempre ma spesso, le vittime di una gravidanza non voluta.". Era la metà degli anni Settanta quando Italia cominciò a tirare un’aria nuova: Emma Bonino dichiarava in Parlamento che «noi donne non siamo contenitori che si allargano e si stringono ogni volta che capita», parlare di contraccezione non era più proibito, il divorzio era già realtà e anche l’aborto, nascosto come polvere sotto un tappeto di ipocrisia, era diventato un problema da affrontare. Che fosse con un referendum come chiedevano i radicali, o per iniziativa parlamentare (come poi accadde), era chiaro che sarebbe uscito presto dalla clandestinità. La legge 194 che ancora oggi regola nel nostro paese il diritto all'interruzione di gravidanza fu approvata il 22 maggio 1978. Il primo ostacolo, tuttavia, all’applicazione di quella che è quasi per tutti una buona legge, è l’obiezione di coscienza che riguarda circa il 71% dei medici, con punte del 97% in Molise e dell’88% in Basilicata. Il che, in molte province rende praticamente impossibile garantire il servizio, e dove è garantito allunga comunque i tempi e le liste di attesa.

La denuncia della Ue e il nodo dell’obiezione

Anche la Ue nella risoluzione con cui porta avanti la richiesta di inserimento del diritto all'aborto nella sua Carta dei diritti fondamentali, ha scritto che "in Italia l'accesso all'assistenza all'aborto sta subendo erosioni", con "un'ampia maggioranza di medici che si dichiara obiettore di coscienza, cosa che rende estremamente difficile de facto l'assistenza all'aborto in alcune Regioni". Mario Piuatti, presidente dell’Aied (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica) spiega: «La legge prevede due diritti opposti: quello della donna di abortire e quello del medico di obiettare. Ma l’obiezione di coscienza aveva senso 40 anni fa, quando è stata emanata la legge. Oggi no: se scegli ginecologia e ostetricia devi sapere che si fanno anche gli aborti». Finalmente, e pur tra non poche polemiche, racconta, alcuni ospedali hanno lanciato bandi per non obiettori, pur di garantire il servizio. Ma la soluzione è ancora lontana.

Aborto farmacologico: un diritto ancora negato

Così come lontana, e ne parliamo oggi che ricorre il 47esimo anniversario della legge, è la possibilità, che in teoria sarebbe alla portata di tutte le donne e ragazze italiane, di abortire senza ricovero. Come fa oggi notare l'associazione Luca Coscioni, che su questo ha lanciato una raccolta firme (la trovate qui) in Italia dal 2020 è possibile eseguire l’aborto farmacologico in consultorio o in ambulatorio, anche con autosomministrazione del secondo farmaco a casa propria. Ma questo aborto senza ricovero è concretamente possibile solo in 2 regioni, ovvero Lazio ed Emilia Romagna.

Autosomministrazione: sicurezza e risparmi

“Sprecare risorse è inaccettabile, soprattutto in un contesto come quello sanitario. Così come è inaccettabile non garantire alle donne la possibilità di scegliere la procedura farmacologica e l’autosomministrazione del secondo farmaco a casa propria”, hanno detto Filomena Gallo, avvocata e segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, e Chiara Lalli, bioeticista e consigliera generale. “Come sempre, la condizione necessaria dell’esercizio di un diritto e di una scelta è l’informazione. La nostra campagna ‘Aborto senza ricovero’ vuole anche contribuire alla corretta informazione sull’applicazione della 194 e sulla salute riproduttiva”. “L’appropriatezza delle prestazioni sanitarie è un principio fondamentale della sanità pubblica: a parità di efficacia e sicurezza, si deve privilegiare il regime assistenziale che comporta la minore spesa. Un ricovero non necessario, poi, è pericoloso per la salute”, hanno dichiarato Mirella Parachini e Anna Pompili, ginecologhe e consigliere generali dell’Associazione Luca Coscioni. “L’aborto farmacologico è sicuro e la possibilità di autosomministrazione è stata ed è ostacolata spesso per ragioni meramente ideologiche”.

Perché scegliere la pillola

Anche Mirella Parachini, ginecologa del San Filippo Neri di Roma nonché storica compagna di Marco Pannella raccontava ad Elle, in occasione del 40esimo compleanno della 194, che "se per abortire ti tocca il consultorio, il medico, l’ospedale, la settimana di ripensamento, le liste di attesa perché i medici sono obiettori che fai? Magari alla fine per non andare troppo in là con i tempi, ti arrangi da sola. La responsabilità non è soltanto degli obiettori: in Italia i problemi sono anche organizzativi, legati ai disservizi della Sanità pubblica». Basterebbe, spiega, incentivare l’uso della RU486 – impiegata in Italia nel 15,7% delle IGV a fronte del 57% in Francia. Per questo lei e Anna Pompili, ginecologa romana fondatrice di Amica (Associazione medici italiani contraccezione e aborto),, avevano promosso già sette anni fa una petizione che chiedeva all'allora ministra per la Salute Beatrice Lorenzin di rendere possibile l’aborto farmacologico anche fuori dagli ospedali. D'altronde negli Usa, che poi negli anni hanno però messo in campo le leggi più restrittive del mondo occidentale in materia di aborto, la RU486 è, negli stati progressisti, raccomandata a casa, e fino alla decima settimana. Da noi puoi usarla fino a 7 settimane e con tre giorni di ricovero che per i sostenitori dell'aborto senza ricovero sono "assolutamente inutili e con costi non sostenibili per la Sanità". «Manca la volontà politica di risolvere i problemi», dice Filomena Gallo, avvocato e presidente dell’Associazione Luca Coscioni. «Non pensiamo che l’aborto sia una passeggiata, ma rendere questa strada così difficile non serve a nessuno». Occorre, sembra scontato ma non lo è, ricordare che aborto chirurgico e farmacologico sono entrambe prassi sicure. C'è chi preferisce risolvere la propria gravidanza con un unico accesso in ospedale tramite l’aborto chirurgico e chi preferisce non sottoporsi a questo piccolo intervento e prendere una pillola. Dovrebbe dipendere dalla scelta di ogni donna. Certo, l’aborto farmacologico è più semplice, c'è una prescrizione di un medico e tu puoi assumere la pillola a casa tua o in ambulatorio e diventa una cosa più privata, più veloce e meno invasiva. L’aborto farmacologico è anche meno costoso e impatta meno sul sistema sanitario. Inoltre, psicologicamente è meno pesante, perché c’è un rischio minore di incontrare obiettori e gruppi antiabortisti che ti intercettano nei corridoi dell’ospedale per farti cambiare idea.

Una libertà sotto controllo

In Italia, però, dato che le linee guida non vengono praticamente mai rispettate, finisce che devi fare comunque quattro accessi in ospedale e paradossalmente può risultare una procedura più complicata. Di fatto, limitare l’aborto farmacologico è un modo per limitare ancora una volta la libertà delle donne. Se ci basassimo su quanto dice l’OMS, dovrebbe essere possibile ottenere la prescrizione dal medico (in Italia non è prevista l’obiezione sulla prescrizione), comprare il medicinale in farmacia, ricevere delle istruzioni su come assumerlo e farlo a casa propria. Questo renderebbe l’aborto accessibile e semplice e vorrebbe dire eliminare di botto la possibilità di obiezione. In Italia, invece, pur avendo reso legale l'aborto, pur avendolo inserito nei livelli essenziali di assistenza, si vuole tenerlo sotto controllo.