Sessantaquattro secondi. Questo è il tempo che impieghiamo per recuperare la concentrazione ogni volta che riceviamo una notifica sul nostro smartphone. È stato calcolato da psicologi ed esperti in dipendenze tecnologiche che sono riusciti a dare una misura a quelle micro emorragie di attenzione causate dai device. Ne viene fuori che, in seguito alle continue interruzioni da schermo che si illumina, si possa perdere molto tempo. In media, si arriva fino a mezza giornata di lavoro o di studio a settimana. Che ci facciamo caso o meno, la realtà è che viviamo preda dell'infobesity, ovvero il sovraccarico cognitivo causato dall'abnorme quantità di informazioni da cui siamo continuamente bombardati, e a cui sentiamo il dovere di rispondere.
Perché siamo diventati voraci consumatori di tutto: cibo, abiti, prodotti, svaghi, viaggi e anche informazione. «Per migliaia di anni il cervello si è evoluto in un mondo in cui le informazioni erano scarse, ma estremamente importanti per la sopravvivenza: è così che siamo diventati “informivori”», dice Marco Fasoli, studioso di Filosofia della tecnologia e scienze cognitive, tra i responsabili del centro di ricerca Benessere digitale dell’Università di Milano Bicocca, nonché autore di Il benessere digitale (Il Mulino). Nell'era dell'iper consumismo, non sappiamo trattenerci su nessun fronte. «È la stessa cosa – spiega sempre Fasoli – successa con zuccheri e grassi: per secoli scarsi e necessari tanto da essere programmati per accaparrarcene il più possibile, e oggi troppi e troppo facilmente disponibili e quindi dannosi per la nostra dieta».
L'abbuffata è, insomma, sempre a portata di mano. Cediamo e in un attimo siamo dentro a un flusso interminabile di mail, messaggi, avvisi, che ci spinge a fare acquisti più velocemente, prendere decisioni in pochi secondi, controllare, aggiornare, e tornare “da te a stretto giro”.
La tecnologia non è neutra: pesa di più sulle donne
Si chiama, dicevamo, infobesity, ma si chiama anche digital overload, ovvero “sovraccarico digitale”, e, come molti altri fenomeni di cui parliamo, non è neutrale rispetto al genere.
Secondo una recente ricerca, infatti, all'interno di una coppia o di nucleo famigliare, sono le donne quelle che tendono a svolgere la maggior parte delle attività domestiche che implichino un'interazione online. Perché più in generale sono le donne ad accollarsi la maggior parte del carico domestico. Nei gruppi whatsapp di genitori, dunque, sono ancora di più le mamme che i papà a far partire le collette per i regali di compleanno, esattamente come sono di più le madri che vanno a colloquio con i professori: on e offline, la situazione è la stessa.
Nonostante gli uomini svolgano un ruolo molto più attivo nella genitorialità rispetto al passato, le donne tendono ancora a essere considerate le organizzatrici della casa e le accuditrici principali. È ormai ampiamente dimostrato che nelle relazioni eterosessuali, le donne svolgono anche la maggior parte del lavoro nascosto, ovvero l'anticipazione, la pianificazione e l'organizzazione dei compiti che aiutano la vita familiare a funzionare. Ciò crea un notevole carico di lavoro mentale che sta a metà tra lavoro cognitivo e lavoro emotivo. Meno ovvio, invece, potrebbe sembrare il fatto che la tecnologia sta esacerbando questa dinamica, mettendo le donne a rischio di sovraccarico digitale e persino di esaurimento.
Chiaramente la tecnologia può aiutarci a essere più produttivi in molti ambiti della nostra vita. Ma a casa, è evidente che la vita online sta aggiungendo ulteriori carichi di lavoro mentali. Un recente studio transnazionale ha analizzato i dati dell'European Social Survey di oltre 6.600 genitori di 29 paesi che avevano almeno un figlio e un genitore in vita. La ricerca ha scoperto che il carico mentale sulle donne, in particolare sulle madri, è esacerbato dalla tecnologia. Sembra, infatti, esserci una divisione del lavoro in base al genere quando si tratta di comunicazione digitale sulla vita familiare. Il team di ricerca ha esaminato l'uso della tecnologia tra gli intervistati e ne è venuto fuori che mentre gli uomini tendevano a usare la tecnologia soprattutto al lavoro, le donne la usavano sia al lavoro che a casa.
Esempi di cosa questo significhi nella pratica non sono difficili da trovare. Sei anni fa la chat dei genitori della prima elementare di mia figlia fu sciaguratamente ribattezzata “Le Mamme Matte”, e così è rimasta negli anni, nonostante l'entrata di un paio di papà. Quando racconto che dell'acquisto di libri e materiale didattico, ma anche di detersivi e generi alimentari di prima necessità, se ne occupa mio marito, vengo guardata con sospetto da chi ancora non conosce la natura maniacale di Marco (“Ma ti fidi?” è una delle domande più deliziose che mi sia mai sentita fare).
Anche la spesa per la casa, i vestiti e il materiale scolastico possono essere acquistati digitalmente. Sono un’estensione, appunto digitale, dei compiti che le donne tendono a svolgere di più. Molte coppie si prefiggono di essere egualitarie, ma spesso si insinuano modelli di genere. Ecco perché è importante riconoscere il ruolo della tecnologia quando si cerca di condividere meglio il carico in casa. Tendiamo a usare i nostri dispositivi digitali sia per il tempo libero che per il lavoro, e questo rende difficile delineare dove l'uso personale sia ricreativo o invece legato, seppur sommessamente, a un dovere.
Come ha sottolineato la defunta studiosa femminista Joan Acker, «per sfidare la disuguaglianza dobbiamo rendere visibile l'invisibile». Se non riesci a vederlo, difficilmente ne sarai consapevole.
Il paradosso della flessibilità: quando il lavoro da casa penalizza le madri
Un altro fattore che contribuisce a spingere le donne ad accettare più lavoro digitale è legato al fatto che, quando non abbandonano la carriera per occuparsi dei figli cosa che in Italia succede ancora in modo diffuso, tendono a lavorare in modo più flessibile rispetto agli uomini, assumendo ruoli part-time per poter essere anche sempre presenti per le esigenze della famiglia e della casa.
Tutto questo illustra molto bene “il paradosso della flessibilità”, ovvero l'idea che il lavoro flessibile sfrutti le donne più degli uomini, poiché enfatizza ulteriormente il loro status di caregiver primario. Lavorare da casa è spesso presentato come un modo per conciliare responsabilità familiari e lavorative, soprattutto per le donne. Ma proprio quella flessibilità può portare ad assumersi una parte maggiore dell'organizzazione di cura dei figli, oggi ampiamente gestita in forma digitale. La sfortunata conseguenza è che, più le donne si assumono impegni in casa, meno spazio mentale resta per la vita professionale. Questo contribuisce al divario retributivo di genere, aumenta lo stress e la possibilità di insoddisfazione nelle relazioni.
Heejung Chung, sociologo del King's College di Londra nel Regno Unito che studia la flessibilità sul posto di lavoro, afferma che il lavoro flessibile esacerba tutti gli aspetti dei lavori domestici e della cura dei bambini. «Le donne che lavorano in modo flessibile o da casa tendono a fare più lavori domestici e di cura dei bambini rispetto alle donne che non lo fanno, perché hanno la flessibilità di infilare quante più ore retribuite e non retribuite possibili nella loro giornata».
Come riequilibrare il carico digitale nella coppia
Per alleggerire il peso mentale sulle donne, condividere gli aspetti “visibili” del lavoro domestico non è sufficiente.
Chung raccomanda di dividere tutti gli aspetti della comunicazione digitale per la vita familiare, che si tratti di fare ricerche, prenotare i corsi sportivi o di essere attivi nei gruppi whatsapp. Suggerisce di avere una conversazione aperta su ciò che fa ognuno. Bisogna parlare anche delle preoccupazioni legate alla pianificazione e all'assistenza dei bambini.
Il miglior consiglio che Chung dà è che «i padri si assumano più cura dei figli da soli, supportati da politiche come il ongedo parentale condiviso retribuito. L'idea qui è che una cura dei figli più attiva possa tradursi col tempo anche in un'organizzazione digitale più condivisa».