In un mondo come quello dello sport italiano, dove gli atleti di talento diventano militari per trovare una conciliazione tra gare e lavoro, la storia del caporal maggiore Monica Contrafatto, classe 1981, è una storia all’incontrario. "Io non faccio parte di un gruppo sportivo dell’esercito: prima sono diventata militare e solo più tardi atleta". Come in tutte le grandi storie, anche quelle che si muovono in una direzione inattesa, a leggerle con il senno di poi ci vedi il tocco del destino. Nel 2012, mentre è in Afghanistan per una missione di pace, il suo gruppo subisce un attacco terroristico e lei rimane ferita gravemente. Sopravvive, ma perde una gamba e il suo mondo cambia come mai avrebbe pensato. "Era l’anno di Londra 2012: forse per caso, mentre ero ricoverata, ho acceso la televisione e ho visto la gara di Martina (Caironi, ndr) che aveva mezza gamba in meno come me e correva in pista i cento metri. In quel momento ho deciso che, se lo faceva lei, potevo farlo anch'io".

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Correva già prima?

Non da atleta. Ero nel corpo dei Bersaglieri, mi toccava correre. Però non mi piaceva. E invece, dal letto d’ospedale, ho deciso che era quello che volevo. Credo sia stata una reazione: mi mancava una gamba e io, per sentirmi normale, mi sono messa a correre. Forse se avessi perso un braccio avrei voluto nuotare o tirare con l’arco. Era una sfida con me stessa, volevo mettermi in gioco con il mio punto debole.

Se puoi sognarlo, puoi farlo.

Sì, ma per sognare qualcosa devi vederlo. L’ispirazione a me l’ha data Martina: se non avessi visto lei, non so se avrei mai pensato di fare l’atleta. E invece, appena ho potuto, ho messo una protesi da corsa.

Adattarsi a una protesi è un percorso non facile.

Soprattutto quella da corsa. Pesa un chilo e mezzo e ha un ginocchio meccanico. È come camminare su un trampolino. Ho iniziato tenendo la mano della mia allenatrice, poi quattro dita, poi tre, finché l’ho lasciata e sono finita per terra. C’era un amico a guardarmi e si è terrorizzato, la mia allenatrice invece rideva: succede a tutti e lei lo sapeva.

Nessun timore di cadere?

No, ma dopo due mesi di allenamento mi sono infortunata la gamba sana. Niente di grave, in realtà, ma lì sì è arrivata la paura e per un anno sono stata ferma. Però la mia allenatrice, Nadia Checchini, mi chiamava tutti i giorni tipo stalker. Mi ha presa per sfinimento e alla fine ha vinto lei: ho ricominciato a maggio 2015 e con un paio di allenamenti a settimana sei mesi dopo ho partecipato al mio primo Mondiale.

Come si impara a convivere con un corpo nuovo?

Il corpo è una macchina che si adatta a qualsiasi cambiamento. Se nella prima parte della mia vita me l’avessero detto non ci avrei creduto, e infatti ero di quelli che guardavano le persone con disabilità dicendo: poverini. Invece mi sento più normale adesso di allora: da bipede non sarei mai arrivata alle soddisfazioni che ho avuto con una gamba sola.

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Lintao Zhang//Getty Images

Il rapporto con lo specchio com’è stato?

Il problema non è mai stato lo specchio, ma lo sguardo degli altri. All’inizio facevo fatica a uscire di casa, anche perché nel paesino siciliano da cui vengo la gente mi guardava come fossi stata un marziano. La curiosità è umana, ci sta che ti guardino, ma non con pietismo. Quella cosa non la sopportavo: avevo il mare a due passi e mi rifiutavo di andarci. Finché un’amica mi ha regalato un cocker e posso dire che quel cane mi ha salvato la vita. Dovevo uscire tutti i giorni per portarlo fuori e la gente ha cominciato a guardare lui invece che me.

E oggi, dopo 12 anni?

Sono fiera di me stessa, per quello che ho fatto e per come ho reagito. Ovvio, stavo meglio con due gambe, ma la mia mente si è aperta e non so se cambierei la mia vita di adesso con quella di prima. Non che fosse brutta, ma le soddisfazioni che ho avuto con lo sport e gli incontri che ho fatto, non sarebbero mai arrivati. Da una grande perdita può nascere la luce. È difficile da credere ma è così. Serve solo forza di volontà. Nel mio caso, poi, la perdita non è stata così grande: la tecnologia con un pezzo in meno ti permette di fare tutto.

Passi avanti sulla strada dell’inclusione ne sono stati fatti molti. Sguardi pieni di pietismo le capitano ancora?

No, e poi non li noto più. Anche la risonanza dello sport paralimpico è cresciuta enormemente: a Rio Martina e io abbiamo vinto delle medaglie, ma la visibilità che abbiamo avuto è stata nulla rispetto a quella di Tokyo. Oggi, con anche Ambra, siamo da stimolo per tutto il movimento.

Quando gareggiate in tre, spazio sul podio ad altri non ne lasciate. Come convivono amicizia e rivalità?

Ambra ha 20 anni meno e per me è come una figlia. È la cucciola del gruppo. Io cerco di vincere, ma dopo tifo per lei, Martina lo sa e accetta. Martina invece per me è sempre quella da battere, la mia vera avversaria. Forse perché ho iniziato grazie a lei, e poi è più grande, abbiamo un rapporto più maturo: se c’è da scontrarci, ci scontriamo.

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Vi somigliate voi tre?

Per niente. Ambra è dolcissima. Martina è la più razionale, quella pacata che prima di parlare pensa: una politica mancata. Io sono quella più istintiva ma anche la più simpatica. Nelle interviste, a Martina fanno le domande serie, io parlo di gossip. Ambra è un giusto mix.

Domanda seria, allora: quanta strada deve fare ancora lo sport paralimpico per uscire dall’angolo?

Lo sport italiano è fondato sul calcio, tutto il resto arranca. Già fatica l’atletica olimpica, figuriamoci quella paralimpica. Però dopo Tokyo ho scoperto che c’è gente che preferisce guardare le nostre gare, forse perché siamo delle storie viventi e mettersi nei nostri panni è più facile. La vita è una corsa a ostacoli: il mio è stato perdere una gamba, ma ognuno ha il suo. E che la corsa sia bella o brutta dipende anche da te. Io mi sento un supereroe e mi piace che gli altri mi vedano così. Sono caduta e mi sono rialzata più forte di prima.

Che aspettative ha per Parigi?

Di salire sul gradino più alto del podio, ovviamente. Anzi, mi aspetto che ci saliamo tutte e tre. Magari in ordine sparso.

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