Certi desideri si realizzano nella maniera più inaspettata. Ambra Sabatini, da bambina, faceva l’atleta e sognava di vincere le Olimpiadi nella sua gara, il mezzofondo. Per questo si allenava, correva e disegnava il suo futuro nella maniera più lineare. Ma la vita, anche quando decide di portarti a destinazione, difficilmente si muove per linee rette: preferisce gli inciampi e gli scenari meno scontati, soprattutto il dolore. E infatti, Ambra nel 2019, a 17 anni, in un incidente ha perso una gamba e, quando tutto sembrava finito, ha trovato la forza di rialzarsi, riprogrammando il percorso come fa il navigatore quando sbagli strada. Destinazione: Paralimpiadi. Una strada diversa e velocissima. Quell’oro tanto sognato, infatti, è arrivato due anni dopo, nel 2021 a Tokyo con la vittoria nei 100 metri, la gara più veloce. Seguita da altri ori e record mondiali. Perché, come diceva Alex Zanardi, nella vita capita anche che, abbassando lo sguardo per cercare ciò che hai perso, scorgi qualcosa che vale la pena raccogliere.

Alle Paralimpiadi di Parigi (28 agosto – 8 settembre) Sabatini arriva come portabandiera e l’atleta da battere: in gara con le sue compagna di squadra, Martina Caironi e Monica Contrafatto, ma soprattutto in gara con se stessa e con le difficoltà fisiche che l’hanno fermata nelle ultime settimane di allenamento. "È un periodo intenso, fatto di tanta preparazione e grandi emozioni. L’ambizione è quella di riconfermarmi: darò il massimo e vedremo che cosa arriverà".

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Moto Yoshimura//Getty Images

Intanto, è arrivata la nomina a portabandiera.

Un onore indescrivibile e un sogno che si realizza. Rappresentare gli atleti paralimpici e il nostro Paese mi spinge ancora di più a dare il massimo. Con quella bandiera, spero di ispirare altri ragazzi a superare le difficoltà con coraggio.

La sua storia ha un prima e un dopo. In mezzo, l’incidente.

Era il 5 giugno 2019. Ero in motorino con mio padre e andavamo verso gli allenamenti quando una macchina ha invaso la nostra corsia prendendoci di striscio. Quello striscio però è bastato a recidere l’arteria femorale. Fortunatamente, dietro di noi c’era un camion di vigili del fuoco: senza di loro in tre minuti sarei morta dissanguata. Il giorno dopo, appena sveglia, mi hanno detto che avevo perso la gamba. Ma io l’avevo capito anche durante il soccorso, mentre cercavo di stare sveglia e lottare.

Come si reagisce a una notizia del genere?

Mi sono aggrappata al pensiero che, se avessi salvato la gamba ma con qualche menomazione, non avrei più potuto fare sport come prima. Invece, mi son detta, con la protesi potevo tornare a correre. Avevo perso il ginocchio, e questo rendeva tutto più complicato, però mi era rimasto tutto il femore, ero sana e non avevo perso altri pezzi di me. Ho cercato di consolarmi così, ma momenti no ce ne sono stati molti.

Com’era prima di salire su quello scooter?

Al terzo anno di superiori, nel pieno della ribellione adolescenziale. Uscivo con un ragazzo e stavo prendendo coscienza del mio lato femminile. Quell’estate l’avrei passata a lavorare come bagnina: ero piena di fiducia in me e nel mio corpo. Per ritrovarla, dopo l’incidente, c’è voluto un po’.

Che cosa l’ha aiutata?

Sapere che certe barriere dovevo romperle il prima possibile. Quando sono uscita dopo tre mesi di ricovero, mi sono subito imposta di andare al centro commerciale con le stampelle e i pantaloncini corti. E poi, una mano me l’ha data Alex Zanardi.

Come?

Mi ha mandato un messaggio in cui diceva che dopo il suo incidente aveva cercato di guardare quello che gli era rimasto, non quello che aveva perso. E che presto anch'io avrei realizzato che le cose che potevo fare ancora erano infinite. Mi sono attaccata a quel pensiero.

A tornare a correre che cosa l’ha convinta?

Volevo continuare a essere un’atleta. Sapevo che esistevano le protesi perché avevo visto quelle di Pistorius e quelle di Martina (Caironi, ndr). Per questo è importante che si mostri lo sport paralimpico e lo si faccia anche nelle scuole: bisogna far sapere che c’è una via di uscita.

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Naomi Baker//Getty Images

Martina Caironi e Monica Contrafatto, campionesse paralimpiche a Rio 2016, sono diventate sue compagne di squadra un anno esatto dopo l’incidente.

Per mesi ho guardato i loro video. A settembre del 2020 ho cominciato ad allenarmi con loro. Mi hanno spiegato tutto e dato molti consigli: l’effetto trainante è importante. Nel momento peggiore a salvarmi è stato lo sport. Purtroppo, però, l’accesso alle protesi sportive non è ancora alla portata di tutti, specialmente dei bambini.

Come ci si abitua a un corpo nuovo?

All’inizio, con le protesi, ho fatto fatica. In realtà, però, l’uomo ha una capacità di adattamento innata e pian piano ho imparato. Pensavo che non sarei mai più riuscita a correre in maniera fluida e invece con l’allenamento sono migliorata.

Altre difficoltà di percorso?

L’abbigliamento. All’inizio vestire una parte del corpo non mia era strano. In più, le protesi erano di carbonio e quando mi sedevo sui muretti della scuola finivo per bucare i jeans. Anche a quello ci si abitua, ma sulla comodità si potrebbe fare qualche passo avanti: anche solo una cerniera per togliere la protesi quando serve sarebbe una manna dal cielo.

Quanto ci ha messo a rivedersi bella dopo l’incidente?

Quantificare il tempo è impossibile. Vedersi belli è una sfida quotidiana: mi sveglio al mattino e trovo sempre qualcosa di cui lamentarmi, come tutte le altre ragazze che si fanno paranoie per piccole cose. Il momento in cui mi sento più bella è in pista, con il top e il completino da gara, la protesi e la scarpetta chiodata.

La vedremo di nuovo in gara con le treccine?

Non so ancora. Ai Mondiali di Parigi ho provato a rinunciarci: mi sono detta che era una superstizione e che non erano di certo le trecce a farmi vincere. Poi però le ho fatte lo stesso, raccolte in una coda. Restano un vezzo e un portafortuna.

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Alex Pantling//Getty Images

Una famosa atleta paralimpica americana, oggi docente universitaria, ha dichiarato: al pubblico è stato detto che la disabilità è una cosa brutta e che conviverci ti rende eccezionale. E invece la disabilità non è brutta e non ti rende eccezionale. Sei d’accordo?

Totalmente. Se concepiamo la disabilità come un qualcosa di eccezionale ricadiamo nei soliti stereotipi dell’atleta eroe, quando in realtà siamo soltanto persone che hanno avuto un incidente. La protesi per me è uno strumento: la indosso come farei con gli occhiali se fossi miope. Dietro le nostre gare non c’è solo la nostra storia: c’è il sudore, la fatica, l’allenamento. Certo, senza estremizzare: sapere che una persona riesce a riprendersi in mano la vita dopo un trauma può essere di ispirazione.

L’immagine di lei che filtra dai profili social, per esempio, è un modello di grande bellezza e libertà. Sta facendo vedere un futuro possibile a chi è ancora in difficoltà?

Il mio profilo Instagram l’ho aperto a 16 anni, poco prima dell’incidente, quindi tardi. Mi ci sono affacciata in punta dei piedi, poi dall’incidente mi è scattata una molla dentro e ho cominciato a postare foto senza protesi e con le protesi, foto in allenamento e fuori. Per allenare lo sguardo degli altri a posarsi sulla diversità.

Ha un tatuaggio che dice: perfettamente imperfetta.

L’ho fatto dopo Tokyo. Ho sempre creduto che siano le imperfezioni a renderci unici. Accettare le fragilità, che siano fisiche, mentali o emotive, non è banale e tutti faticano. Sono piccole sfide quotidiane che si vincono cercando di guardare noi stessi da un’altra prospettiva.

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