Chiedere i soldi per la spesa, quelli per comprare i vestiti al bambino, dover riportare il resto e giustificarsi, venire accusate di aver speso troppo, di tenere i soldi per sé. La violenza economica esiste e ha una definizione specifica. Si tratta di “Atti di controllo e monitoraggio del comportamento di una donna in termini di uso e distribuzione del denaro, con la costante minaccia di negare risorse economiche, o impedendole di avere un lavoro e un’entrata finanziaria personale e di utilizzare le proprie risorse secondo la sua volontà”. Viene citata espressamente nell’articolo 3 della Convenzione di Istanbul e fa parte a tutti gli effetti della “violenza domestica”, proprio come la violenza psicologica, quella verbale, quella sessuale o quella fisica. Ancora oggi le donne ne sono vittime, ma non è sempre facile riuscire a identificarla e se ne parla troppo poco.
Secondo l'ultimo rapporto dell'associazione nazionale D.i.Re Donne in Rete contro la violenza, le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza italiani riportano violenza economica nel 31,6% dei casi. Come fa notare Forbes, l'abuso finanziario può iniziare in modo sottile e subdolo, mascherato da una forma di "cura e preoccupazione" da parte del partner. L'abuser potrebbe offrirsi di gestire le finanze della sua compagna in quanto "più esperto", potrebbe suggerirle di lasciare il lavoro perché il suo stipendio può bastare per entrambi e lei non ha bisogno di faticare, potrebbe proporre di unificare i conti per praticità. Nel tempo la violenza finanziaria rivela la sua vera natura ovvero un esercizio di potere e controllo da parte dell'abuser volto a creare una situazione di totale dipendenza, vulnerabilità e infantilizzazione.
Come ricorda The Vision, nel 2018 la Casa delle donne di Milano (CADMI) aveva pubblicato, in collaborazione con la Global Thinking Foundation, una guida di consigli pratici per riconoscere i vari stadi della violenza economica, identificando quattro livelli. Nella prima fase, la donna è ancora apparentemente coinvolta nella gestione dell’economia familiare anche se di fondo è presente un monopolio maschile per quanto riguarda decisioni e firme. Al livello successivo, l’abuser inizia a prendere il controllo dell'economia familiare, la donna viene tenuta all'oscuro delle entrate e non ha accesso ai conti. L'abuser le fornisce invece un compenso periodico, una sorta di “paghetta” rispetto alla quale la vittima è tenuta a rendere conto. Al terzo livello, la libertà di scelta della donna - anche nelle spese mediche e personali - viene sostanzialmente annullata e si può arrivare anche all’ultimo livello che include atti coercitivi per firmare assegni scoperti, fare da prestanome, sottoscrivere fideiussioni.
Secondo un report di Actionaid, il 53% delle donne coinvolte ha dichiarato di aver subìto una qualche forma di violenza economica. Di queste, il 22,6% non ha accesso al reddito familiare, il 19,1% non può utilizzare i suoi soldi liberamente, il 17,6% afferma che le sue spese sono controllate dal partner, il 16,9% non conosce l’entità del reddito familiare, e il 10,8% non può lavorare o trovare un impiego. Così la violenza economica finisce per limitare profondamente l'autonomia della donna che sarà ancora più esposta alle altre forme di abuso e faticherà a denunciare e a cercare aiuto. Ecco perché è fondamentale tenere conto di questo aspetto nel cercare di prevenire la violenza di genere e nell'aiutare le donne che vogliono cercare di uscirne. Iniziative come il cosiddetto reddito di libertà per le donne vittime di violenze andrebbero ampliate trovando ulteriori strategie, anche con il supporto delle banche, per combattere questa forma di violenza altrimenti destinata a rimanere invisibile.