La Corte Suprema degli Stati Uniti, composta da nove persone elette a vita, ha decretato che abortire non è un diritto costituzionale, quindi deve essere disciplinato dai singoli Stati dell’unione. Subito dopo tale regressiva sentenza, undici Stati hanno dichiarato illegale l’interruzione volontaria della gravidanza. Altri se ne aggiungeranno.
Le donne di tutto il mondo faranno un passo indietro. Vorrei dire una banalità: diventare madre è la decisione più importante che può prendere una persona. Banalità numero due: la maternità è mostruosa. È una forma di amore profondo, inevitabile, complesso e completo, un amore che dura tutta la vita. L’amore che ti lega ai tuoi figli genera ansia e riduce la tua libertà di movimento, ma ti mantiene in contatto con le generazioni dopo la tua. Quella dei figli, quella dei nipotini. Ti costa, certo, come tutti i sentimenti profondi, ma rende, sul piano emozionale, quanto il più rischioso degli investimenti.
Ecco, mi sto esercitando nella nobile arte dell’esposizione dell’ovvio e della ripetizione del già detto. Eh sì, perché negli Stati Uniti d’America, quella potenza mondiale, quel faro di arretratezza che pretenderebbe di esportare democrazia, è passata la linea di togliere alle donne il diritto di scegliere se diventare madri o no.
Ne discutevo con fervore una cinquantina d’anni fa, mese più mese meno. Avevo vent’anni, forse anche diciannove. Sapevo, perché le ragazze lo sanno subito, che l’accesso ai contraccettivi era la base minima necessaria per emanciparsi dall’obbligo di servire la specie senza limiti, fino al completo annullamento dei propri desideri, delle proprie passioni, della possibilità di raggiungere l’indipendenza economica dagli uomini.
Rendevo omaggio, in ginocchio, a San Pincus, per aver scoperto e brevettato la prima pillola che consentiva di scollegare il sesso dalla procreazione. Senza dubbio la più grande rivoluzione del Novecento. In quel periodo, negli Stati Uniti prima che in tutto il resto del mondo, si stabiliva che abortire era un diritto. Correva l’anno 1971. Il femminismo era un movimento di massa. I movimenti di massa contavano. Da noi la legge numero 194, fragile e fondamentale, sempre bisognosa del nostro sostegno armato di pazienza, approvata nel 1978, veniva riconfermata nel 1981, vincendo nel referendum che voleva abrogarla.
A che cosa serve legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza? A rimediare a un errore, a depotenziare una violenza, a ribadire la libertà femminile di disporre del proprio corpo, ma soprattutto a evitare che venga al mondo un infelice. Infelici sono i figli delle cattive madri. E cattive madri sono, non sempre ma spesso, le vittime di una gravidanza non voluta.
L’aborto è un’esperienza dolorosa. Credete che difendiamo il diritto di praticarlo senza rischi per la salute né costi economici che non tutte possono permettersi, perché è una festa, un privilegio, uno spasso? Nessuna donna affronta un aborto con leggerezza, non c’è bisogno di renderlo più difficile, di costringere a viaggi della disperazione, di caricare sul dolore anche l’ansia dell’illegalità.
L’aborto è una correzione, anche il divorzio è una correzione. Ma è un diritto di tutti poter correggere gli errori, poter ridurre l’infelicità a quel minimo inevitabile (la morte, il fastidioso dettaglio che hai una vita sola, e devi fartela bastare), poter decidere se intraprendere o no la più difficile delle carriere: quella di concepire, crescere e attrezzare per affrontare il mondo un nuovo essere umano.