Anna ha 27 anni, una laurea in informatica e un mutuo sulle spalle stipulato per conseguirla, che si mangia parte del suo stipendio. «Sono partita alla grande, bei voti, in corso; poi ho perso mio padre, la mia famiglia non è più stata in grado di pagarmi le rette e la stanza a Milano. Ho dovuto trovare un lavoro». Per quanto seria e ansiosa di laurearsi, non le è stata riconosciuta una borsa di studio, né per merito, «pur continuando a studiare, la mia media era calata», né per reddito: «il nostro Isee si riferiva a quando mio padre era in vita e portava a casa uno stipendio».
In Italia sono ancora pochi gli studenti che ricorrono ai cosiddetti “prestiti d’onore”, finanziamenti agevolati finalizzati a sostenere gli studi: l’1%, secondo Diego Vollaro, membro dell’esecutivo dell’Unione degli studenti universitari: «è una delle ricadute di una tassazione insostenibile». Gli atenei pubblici italiani avanzano nei ranking internazionali ma restano un sistema sottofinanziato che impone grandi sacrifici a studenti e famiglie. Secondo un report realizzato dall’Udu e presentato in Senato nel novembre scorso, negli ultimi 15 anni la tassazione annua è cresciuta dell’82%. È al Nord che le rette sono più alte, ma al Sud l’aumento ha superato in poco tempo il 100%, con punte del 260%, nel caso del Politecnico di Bari. Secondo un rapporto di Eurydice del 2020/21, l’Italia, fanalino di coda in Europa col suo 20% di laureati, si attesta tra i Paesi europei con la tassazione universitaria più alta e gli interventi per il diritto allo studio più bassi, in netta controtendenza rispetto, per esempio, alle politiche adottate in Germania, dove il sistema universitario è totalmente gratuito, con interventi minimi per il diritto allo studio, e ai Paesi scandinavi - Norvegia esclusa - dove alla gratuità degli studi corrispondono importanti incentivi statali».
Rette fuorilegge
La notizia è che uno studio più recente sui bilanci delle Università lombarde (le più care in Italia) realizzato da Udu in collaborazione con Cgil denuncia lo “sforamento” in molti atenei del tetto massimo consentito ai contributi richiesti agli studenti. «Esiste un limite preciso alla tassazione», spiega Vollaro. «Secondo un decreto del presidente della Repubblica, i proventi derivanti dalle tasse non possono essere superiori al 20 per cento del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), la quota che ogni anno lo Stato versa agli atenei. In sostanza, se un’università riceve 100 mila euro di Ffo, non può imporre tasse che complessivamente gliene facciano incassare più di 20 mila; ciò naturalmente non vale per le private, dove il discorso è più complesso».
Non possono, eppure lo fanno. Con un increscioso corto circuito: «da quando i fondi nazionali sono tornati ad aumentare, a maggior ragione con gli investimenti del Pnrr, anche le rette, che a tali fondi sono ancorate, lievitano in proporzione». Accade per ragioni diverse, spiega il rappresentante dell’Udu: «gli atenei faticano ancora a riprendersi dai tagli drastici ai Ffo imposti dalla riforma Gelmini, tra il 2008 e il 2010, e quei soldi, soggetti a meno vincoli rispetto ai fondi, sono spesso cruciali», riconosce Simone Agutoli dell’Udu di Pavia, la sesta Università più cara in Italia, dove per 4 anni di fila, dal 2010 al 1013, gli studenti hanno fatto ricorso, denunciando le tasse illegittime, e vinto. «Con quei soldi l’Università finanzia le borse di studio che Regione Lombardia e il ministero non coprono, o attiva convenzioni utili, come l’abbonamento per il trasporto a 20 euro all’anno. Ma se confrontiamo l’Ateneo di Pavia con quello di Bergamo, il più economico in Lombardia, non troviamo distanze abissali». Far quadrare i conti legittimamente si può, lo conferma il professor Lucio Imberti, delegato del rettore al diritto allo studio per l’Università di Bergamo: «alla luce di scelte di bilancio virtuose, il nostro ateneo», spiega, «ha deciso strategicamente il contenimento delle tasse universitarie per valorizzare la centralità degli studenti, compensando in alcuni anni, anche con risorse proprie, il mancato gettito derivante dal riconoscimento di esoneri e altre agevolazioni. Tutto ciò senza andare a incidere sui servizi erogati, in virtù di un attento controllo della qualità e del costo degli stessi. La scelta appare premiata dal rilevante incremento degli iscritti». Incoraggiati dalle buone pratiche, gli studenti insistono: a Pavia sono tornati, dopo quasi un decennio, a fare ricorso: «È il quinto, i primi 3 sono già stati vinti, il quarto è sulla buona strada». Lo hanno fatto anche alla Statale di Milano, poi ritirato dopo un accordo con la governance; in altri atenei, Padova e, notizia recente, l’Insubria, il ricorso è stato scongiurato dalla disponibilità dei rettori a ridiscutere il modello contributivo. «Le vie legali», riconosce Agutoli, «sono l’ultima arma. Quest’anno: dopo anni di collaborazione, ci siamo trovati di fronte un muro di gomma e non abbiamo avuto scelta».
Più quantità che qualità
C’è la competitività tra atenei all’origine di un modello contributivo che gli studenti ritengono iniquo: «penalizza soprattutto chi manca di raggiungere un certo numero crediti ogni anno e chi non è in corso», conferma Vollaro, «come se si trattasse di punire degli studenti pigri. Se così fosse, i fuori corso non arriverebbero a rappresentare, in certi atenei, il 40-50%, della popolazione studentesca». La realtà, spiegano, è più complessa e non tiene conto delle contraddizioni nei piani di studi, della difficoltà di orientarsi, dei problemi di accesso a certi corsi di laurea e degli sbarramenti per chi voglia cambiare indirizzo o facoltà, per non parlare degli studenti lavoratori. «È un modello che premia più la quantità che la qualità, impone criteri rigidi in cambio di fondi: per avere più risorse gli atenei devono produrre più laureati in corso, coi punteggi più alti, aumentare gli iscritti, e via così, secondo una logica che gratifica le eccellenze e penalizza chi non fornisce determinate prestazioni: persone, dipartimenti, intere aree del sapere», conclude Vollaro. Un criterio che si applica anche al sostegno allo studio, vincolato, oltre che al reddito, ai crediti raggiunti: «lo Stato riconosce a uno studente un bisogno economico solo laddove sia meritevole, secondo una nozione ancora una volta legata alla prestazione». A criteri di merito risponde anche la No Tax Area, il provvedimento istituito nel 2017 che garantisce la gratuità sotto un un certo reddito Isee: innalzato a 20 mila euro durante la pandemia, fino alla soglia attuale di 22 mila, anch’esso si rivolge agli studenti entro il primo anno fuori corso e a chi ottiene un certo numero di crediti.
Verso la gratuità?
«Dell’esenzione beneficia solo un terzo degli studenti», rileva Vollaro. «Ci attendevamo un ulteriore aumento, a 24 mila euro, sarebbe stato un passo importante verso il nostro obiettivo: la gratuità degli studi. Servono 2 miliardi di euro l’anno a garantirla, cioè la somma dei proventi medi che tutti gli studenti versano. Non è una rivendicazione velleitaria, ma la richiesta di un investimento concreto: garantire il diritto alla conoscenza fa crescere un Paese da un punto di vista culturale, sociale, ma anche economico: l’Europa investe in media il 5% del Pil in istruzione, in Italia siamo ancora fermi al 3». Un obiettivo realistico? La ministra Maria Cristina Messa conferma a Elle che «l’interesse di studenti e studentesse coincide col nostro, garantire a tutti coloro che decidono di intraprendere un percorso di studi universitari di poterlo fare nell’ateneo che desiderano, indipendentemente dalla situazione economica della famiglia: è una delle scelte più importanti che un giovane si trovi a compiere nella vita e dev’essere quanto più possibile libera da condizionamenti. Sappiamo bene che oggi studiare in Italia è ancora un costo, motivo per cui abbiamo introdotto alcuni strumenti per incidere in modo organico sul diritto allo studio, altri li stiamo studiando. Grazie agli investimenti del Pnrr, abbiamo aumentato in media di 700 euro il valore di tutte le borse di studio per i capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi e abbiamo scelto di aumentarle di più (900 euro) per gli studenti fuori sede, allargando contemporaneamente la platea dei beneficiari. Abbiamo previsto quasi 1 miliardo di euro, di cui una parte già banditi, per co-finanziare la realizzazione di nuove residenze, studentati e campus: l’obiettivo è di passare dai 40 mila posti disponibili a circa 100 mila. So che i ragazzi chiedono di intervenire ancora di più sulla No Tax Area e in me sanno di avere una realista alleata: dobbiamo però prevedere nel medio termine misure sostenibili senza essere costretti, poi, a tornare indietro. Stiamo lavorando per questo».
Si procede dunque piano, ma nella stessa direzione. Agli studenti, per costituzione più visionari, tocca l’audacia di guardare oltre: «il passo successivo è la “totale gratuità”», azzarda Vollaro, «che include, appunto, oltre alle tasse, trasporti, pasti, residenze e materiale didattico, un investimento da 17 miliardi di euro l’anno. Con le risorse del Recovery plan e la ridistribuzione di certe voci di spesa si possono realizzare passi avanti in questa direzione». «Ho appena chiamato in videocall dei colleghi ucraini, costretti a lasciare aule e libri per arruolarsi», conferma Agutoli. «Se i Paesi investissero più sulla cultura che sulle armi, forse non saremmo a questo punto».