Dopo aver battuto (The Queen) Serena Williams agli US Open, Naomi Osaka è pronta a conquistare il suo secondo slam (è in finale agli Australian Open contro Petra Kvitova, ndr) e a 21 anni potrebbe guardare tutte le sue colleghe (più famose, più mondane, più quotate) dall'alto al basso e salire in vetta alla classifica WTA. Wow, questa sì che è una bella storia. Eppure, in questi giorni di attesa, a tenere banco sui giornali, web e social non sono proprio il numero di ace o schiaffi al volo che l'enfant prodige del tennis ha inflitto alle sue avversarie. Tutt'altra storia. Naomi Osaka è finita sotto accusa (indirettamente) e le accuse sono pesanti. Razzismo. Proprio lei, simbolo del futuro dello sport multirazziale, madre giapponese, padre haitiano, cresciuta negli Stati Uniti, che nel suo essere un'atleta biracial ha fondato tutto il suo credo e la sua immagine. Una brutta storia.

In realtà ad essere finito nell'occhio del ciclone è stato lo sponsor della tennista, Nissin, azienda che produce noodle istantanei, che con lo spot Hungry to win ha alzato un polverone mica male. Una campagna cartoon affidata al disegnatore Takeshi Konomi con protagonista la Osaka e il collega Kei Nishikori. Fin qui tutto bene. Il problema nasce quando la Naomi versione cartoon alla vera Naomi non assomiglia per niente. Quando i tratti haitiani scompaiono, i capelli afro vengono brutalmente stirati, e il colore della pelle viene "sbiancato" (che a guardare le immagini, è un eufemismo). Naomi è mulatta e nello spot è caucasica, punto. Un caso di whitewashing che non è passato inosservato e che ha accesso i riflettori sulla piaga sociale dell'integrazione in Giappone, dove purtroppo gli ha-fu, i giapponesi nati da famiglie miste, e i gaijin, le persone nate al di fuori del Paese, non sono ancora pienamente accettati. Vedere una donna di colore in una grande campagna pubblicitaria giapponese è praticamente impossibile, e questa sarebbe potuta essere l'occasione giusta per sdoganare finalmente questo insensato tabù. Ma non è andata così. Naomi è stata rappresentata come un tipico personaggio anime giapponese, ne più ne meno. Peccato.

Sulla vicenda è intervenuta Naomi in prima persona nella conferenza stampa tenuta dopo la semifinale difendendo il suo sponsor ("Ho parlato con loro, si sono scusati" ha detto ai giornalisti,"per me è una cosa ovvia, sono di colore. Non penso che l’abbiano fatto a scopo di whitewashing o simili. Ma sono convinta che la prossima volta che vorranno rappresentarmi in qualche modo, senz'altro me ne dovranno parlare"), ma il mea culpa in differita non è bastato. La Nissin subissata di insulti e accuse di discriminazione, ha dovuto fare marcia indietro, correre ai ripari e ritirare la campagna.

"Questi annunci sono stati fraintesi", ha detto il portavoce del marchio, Daisuke Okabayashi all'AFP, come riporta Le Figaro, rivendicando però "uno stile che corrisponde al mondo delle anime giapponesi", sottolineando che "nei manga o nelle anime, un personaggio raramente è ritratto come nella realtà, ma piuttosto è una trasposizione dello stile dell'artista", e concludendo che in futuro presteranno "più attenzione ai problemi di diversità nelle attività promozionali". Fare il processo alle intenzioni non è mai una buona idea, ci sono progetti che riescono meglio e altri che sono un buco nell'acqua (errare humanum est, giusto?). Ma nel 2019 una pubblicità non è solo una pubblicità (e il caso Gillette lo chiarisce benissimo), è la trasposizione in musica, volti e immagini di un mondo e una cultura. E il testimonial giusto non basta.