Se quella maledetta notte tra il 4 e il 5 agosto 1962 non l'avesse trascorsa da sola nella sua casa di Brentwood e qualcuno avesse vigilato sul dosaggio dei suoi barbiturici, di cui era solita abusare, oggi forse Marilyn Monroe sarebbe un'arzilla 95enne con tante storie da raccontare o, quantomeno, potremmo parlare di lei non come di una stella bruciata troppo in fretta nel firmamento del cinema all'età di appena 36 anni, ma come di una grande attrice che ha saputo "prendere il suo dolore e trasformarlo in arte", per citare un'altra grande donna come Carrie Fisher.
Come sappiamo però la storia di Norma Jeane Mortenson Baker – questo il suo nome di battesimo – non è mai stata delle più felici, a cominciare dall'infanzia trascorsa in orfanotrofio dopo che la madre Gladys venne dichiarata incapace di intendere e di volere, per proseguire con le molte relazioni tossiche avute nel corso della sua vita e la perenne difficoltà di emanciparsi dal ruolo di "bionda senza cervello", incapace di interpretare ruoli che non la facessero sembrare sciocca, fatua e un po' sbadata. Per questa diva, presenza fissa nelle copertine dei rotocalchi per il viso d'angelo e il corpo da dea, la vita fu avara di soddisfazioni: due matrimoni falliti, nessun figlio e solo un Golden Globe vinto come migliore attrice in un film commedia o musicale A qualcuno piace caldo nel 1960.
Marilyn Monroe la verità sull'ultima telefonata della diva
Eppure Marilyn aveva fame di successi, tanti amici che sentiva quotidianamente e molti progetti da realizzare. Anche per questo, a 63 anni dalla sua scomparsa, quell'ultima telefonata con Peter Lawford, attore nonché cognato di John Fitzgerald Kennedy, poche ore prima di morire infittisce il mistero attorno a un evento che gli investigatori non sono mai stati certi se classificare come suicidio, omicidio o fatalità e su cui negli anni sono state formulate diverse ipotesi. Nell'oltre mezzo secolo trascorso c'è chi ha pensato che l'allora presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy e suo fratello Robert volessero sbarazzarsi dell'attrice che aveva minacciato di rivelare la sua relazione clandestina con i fratelli e chi ha creduto che la star di Hollywood fosse finita vittima di un complotto, tra criminalità organizzata e servizi segreti. Tuttavia nel 1982, quando il procuratore distrettuale della contea di Los Angeles riesaminò il caso, non riuscì a trovare nessuna prova che portasse verso una versione dei fatti diversa da quella ufficiale e alla fine propese per "probabile suicidio".
Alla luce delle ricostruzioni ufficiali, ecco cosa sappiamo delle ultime ore dell'attrice. Sabato 4 agosto Marilyn Monroe trascorre la giornata nella sua casa di Brentwood, dove riceve diverse visite, prima fra tutte quella del fotografo Lawrence Schiller, autore del celebre servizio fotografico sul set di quello che sarebbe stato il suo ultimo film Something’s Got to Give. Alle 16.30 è la volta dello psichiatra dell’attrice, il dottor Ralph Greenson, con cui la diva si intrattiene per una sessione di terapia. Nella casa al 12305 Fifth Helena Drive, oltre alla sua governante Eunice Murray, che era stata appena licenziata e che di lì a pochi giorni avrebbe terminato il servizio, c'era anche l’addetta stampa di Marilyn, Patricia Newcomb, che chiede a Murray di poter rimanere a dormire ancora una notte (era già rimasta la notte precedente) per tenere compagnia alla star. L'attrice nel frattempo, intorno alle 19.00-19.15, riceve una chiamata dal figlio del suo ex marito, Joe DiMaggio Jr., a cui era rimasta legata anche dopo il divorzio e che riferisce alla Monroe di aver rotto con la sua ragazza dell’epoca, notizia che Marilyn riporta a sua volta a Greenson intorno alle 19.40-19.45, prima di ritirarsi nella sua stanza intorno alle 20.00.
Da questo momento la ricostruzione si fa più nebulosa. Le uniche certezze convergono sull'ultima chiamata effettuata dall'attrice al già ricordato Peter Lawford, confermata a distanza di anni da lui stesso al giornalista Earl Wilson del New York Post. I due parlano del più e del meno come vecchi amici, ma quello che insospettisce Lawford sono le parole di congedo dell'attrice, che prima di appendere il ricevitore dice: "Di’ addio a Pat (la moglie di Peter, Patricia Kennedy, ndr), saluta il presidente e saluta te stesso, perché sei un bravo ragazzo". Insospettito da quelle parole e dal tono di Marylin, che sembrava sotto effetto di barbiturici, Lawford telefona prima all’agente di Marilyn Milton Ebbins, che cerca invano di mettersi in contatto con Greenson, poi al suo avvocato Milton Rudin, che a sua volta prova a chiamare l’attrice. A rispondere però è la governante, che lo rassicura: la star sta bene, è nella sua stanza con la luce accesa e sta ascoltando il suo grammofono, come fa ogni sera.
Intorno alle 3.00-3.30 di notte la governante si sveglia e nota la luce della camera da letto di Marilyn che trapela da sotto la porta della stanza, chiusa a chiave. Prova a chiamare l’attrice, ma senza ottenere risposta. Allarmata, telefona subito a Greenson che arriva a casa poco dopo. Fa irruzione nella stanza di Monroe rompendo una finestra e trova la star riversa sul letto senza vita, coperta da un lenzuolo e con ancora in mano la cornetta del telefono. Viene chiamato il medico dell’attrice Hyman Engelberg, che arriva intorno alle 3.50 e non può far altro che constatarne il decesso. Tante cose non tornano di questa morte avvenuta per avvelenamento da barbiturici: a partire dalla posizione in cui fu trovata l'attrice, a pancia in giù, inusuale per un'overdose da farmaci, per proseguire con la sparizione di alcuni documenti, mai più rinvenuti, dalla casa della star. C'è chi ha ipotizzato che potesse trattarsi di preziose prove che, se trovate, avrebbero compromesso la carriera politica dei Kennedy.
Negli anni emersero testimonianze discordanti e talvolta fantasiose come la tesi dell'omicidio di mafia rivendicata da Chuck Giancana, fratello minore di Sam Giancana – uno dei grandi nomi della mafia americana degli anni Sessanta –, che nel libro Double Cross, uscito nel 1992, affermò che fu proprio il boss di Chicago a ordinare l’esecuzione della diva con l’intento di vendicarsi di Bob Kennedy. Tutte voci mai confermate che contribuirono ad alimentare il mito della diva di Hollywood bella e dannata. A mettere un punto sulla vicenda ci pensò la sorella maggiore della Monroe, Berniece Baker Miracle, nata dal primo matrimonio della madre Gladys, che dopo anni di riservatezza, nel suo libro di memorie familiari intitolato Mia sorella Marylin del 1995 liquidò la numerosa letteratura fiorita sul caso con una frase lapidaria: "Non è vero che era infelice, anzi pensava al futuro con grande entusiasmo. Non è vero che si è uccisa e nemmeno che sia stata assassinata dalla mafia, tutte fantasie inventate da gente senza scrupoli, per scrivere libri con cui fare molti soldi". E aggiunse: "Mia sorella aveva l’abitudine di bere champagne tutto il giorno e prendere molti barbiturici. Faceva una vita molto stressante, aveva bisogno di dormire poi di assumere sostanze che la tenessero in forma. Forse accidentalmente ha ingerito una miscela eccessiva di alcol e farmaci".
Nessuno potrà mai dire come andarono davvero le cose, l'unica cosa certa è che anche dopo la sua morte Marylin Monroe continuò a essere un'icona della nostra epoca, merito anche di Andy Warhol che con la sua Pop Art ne riprodusse il volto all'infinito fino a "consumarlo" come un qualsiasi prodotto commerciale di cui non si smette mai di avere bisogno. Pochi, pochissimi la capirono e l'amarono per la donna che veramente era stata, con le sue gioie, i suoi drammi e le sue fragilità. Fra questi l'ex campione di baseball DiMaggio che l'8 agosto si occupò personalmente di organizzare il suo funerale al Westwood Village Memorial Park Cemetery e che per vent'anni farà portare ogni settimana sulla sua tomba sei rose rosse.