Dall’Argentina, classe 1972, Adrian Appiolaza, un diploma alla Central Saint Martins di Londra e un’esperienza trentennale in realtà come Louis Vuitton, Miu Miu, Chloé e Loewe – in quest’ultime come design director per la collezione donna – da gennaio 2024 tiene le redini della maison Moschino. Un ruolo che ha abbracciato con riverenza, rispettandone heritage, spirito e valori del brand, approccio ludico e provocatorio compreso. Appiolaza trasporta i personaggi ideati negli anni ’80 e ’90 dal brand ai giorni nostri mantenendo la medesima aurea surrealista, in primis attraverso gli accessori e i dettagli trompe-l'oeil; celebra e sovverte le sue iconografie, le smembra e le ricompone. Un lavoro stilistico quanto concettuale, di messa in scena di objets trouvés alla maniera di Marcel Duchamp.
Ha dichiarato che l'essenza del talento del fondatore della maison, Franco Moschino, risiedeva nel saper abitare il suo tempo, sublimandone i pregi e ironizzandone i difetti. Quali sono virtù e pecche della nostra epoca?
Rispondere a questa domanda, in questo preciso momento storico, non è semplice. Sono profondamente colpito e preoccupato per i conflitti in corso e per le persone che soffrono a causa di essi. Mi sento vicino a chi lotta per difendere la propria libertà, identità e futuro in un mondo che sembra sempre più fragile. Se dovessi individuare il valore più grande del nostro tempo, credo che sarebbe proprio la “libertà”: la possibilità di esprimere opinioni, viaggiare, svolgere il lavoro che si ama.Nonostante le incertezze e le tensioni globali, poter vivere senza vincoli imposti, scegliere chi essere e come raccontarsi, è qualcosa di inestimabile che dobbiamo proteggere con consapevolezza.
Artista rivoluzionario e geniale provocatore: in cosa trova affinità con il fondatore e cosa invece vi differenzia?
L’ironia e la vicinanza al sociale sono sicuramente due elementi che abbiamo in comune. Ciò che ci differenzia è che lui ha vissuto in un'epoca molto diversa, sebbene non così lontana nel tempo, e questo influisce profondamente sul modo in cui si può comunicare e affrontare con sarcasmo e irriverenza certi temi.
Con l'attuale situazione sociopolitica, pensa che la moda, in particolare il lusso, abbia una sorta di dovere morale nel veicolare certi messaggi?
La moda ha un potere comunicativo straordinario: diretto, immediato, chiaro ed efficace. I brand sono seguiti e amati da milioni di persone su tutte le piattaforme di comunicazione esistenti. Perciò, quando noi designer lanciamo un messaggio, abbiamo il privilegio, e la responsabilità, di farci ascoltare. Ritengo che il rapporto tra moda e impegno sociale sia fondamentale. Il finale della sfilata A/I 2025 presentata a Milano lo scorso marzo ha visto protagonista una maxi T-shirt con la scritta “SOS Save the Planet” e il simbolo del globo. Un messaggio che oggi suona più urgente che mai. Eppure, la grafica era stata disegnata da Franco Moschino nel 1989. Questo dice molto: certi temi restano aperti, irrisolti, e la moda può, e deve, stimolare il dialogo.
I simboli e gli stereotipi legati all’Italia, definiscono da sempre il vocabolario stilistico di Moschino. Con quali si diverte maggiormente a giocare?
Senza dubbio con quelli che sono veri e propri trompe-l'oeil in 3D. La Baguette Bag sembra davvero il tipico pane francese appena sfornato! Al primo sguardo è impossibile pensare che sia realizzata in pelle. È stata la mia prima borsa diventata cult (A/I 2024). La Pizza Bag ha perfino le foglie di basilico e la superficie lucida, come se ci fosse dell’olio, e ciò la rende così realistica, così come la borsa a forma di spaghetti, dell'ultimo show: un livello di artigianalità altissimo e che ha avuto un successo strepitoso sui social.
Quali sono i suoi luoghi del cuore del nostro Paese?
Milano, la città in cui vivo e dove mi muovo esclusivamente in bicicletta. Amo il fatto che si stia espandendo e si stiano creando nuovi quartieri con una grande propensione artistica. Poi Napoli, con la sua storia e il suo caos meraviglioso che a volte mi ricorda quello di Buenos Aires; ci torno appena posso, ci sono negozi segreti dove acquisto oggetti sacri di antiquariato, piccole reliquie che porto con me. E poi la Puglia, che per me significa estate, mare e amici.
Che ricordi ha della sua infanzia a Buenos Aires? Trascorreva ore nella sartoria di sua nonna...
Sono cresciuto in una famiglia molto religiosa, ogni domenica andavo a messa con mia nonna. Il giorno della comunione ho indossato, per la prima volta, una cravatta, con dei pantaloni di velluto se non ricordo male. Già a quell’età avevo una mia opinione su cosa indossare e dispensavo consigli ai miei familiari. Mi piaceva osservare le statue in chiesa per vedere come fossero vestite, o svestite. Mi viene da dire che, forse, il mio amore per la moda è nato osservando l’arte religiosa più che dagli insegnamenti appresi nella sartoria di famiglia.
È stata la sua passione per la musica, in particolare per il “Madchester" (movimento musicale, sviluppatosi a Manchester tra la fine degli ’80 e i primi ’90), non la moda, a farla approdare in Inghilterra.
Sì, è vero, Manchester, negli anni '80 e '90, viveva un momento creativo che mi attraeva molto; un mix di musica rock, dance ed elettronica che fu in grado di definire una generazione. Ascoltavo gli Happy Mondays, i Stone Roses e i The Charlatans che non solo hanno influenzato la scena musicale, ma anche quella culturale e sociale. L'energia di quel periodo, l'atteggiamento ribelle e la libertà di espressione, mi hanno colpito profondamente. È stata proprio quella fusione di suoni e visioni che mi ha spinto a trasferirmi in Inghilterra. La musica ha avuto un impatto anche sul mio approccio alla moda, ispirandomi a divertirmi a mescolare diversi stili. A Buenos Aires lavoravo in una società di assicurazioni. Non era di certo il lavoro per me. Una volta trasferito a Londra ho iniziato a vivere la club scene, mi sono innamorato di un mondo totalmente diverso dal mio e mi sono iscritto alla Central Saint Martins per studiare come designer.
Da anni colleziona creazioni dei grandi couturier: 20 Age Archive, circa 4.000 pezzi, alcuni possono essere noleggiati per shooting, red carpet - non ha paura che vengano danneggiati?
Ammetto che, quando i look rientrano dagli shooting, temo sempre possano essersi rovinati. Ma io e il mio compagno Ryan Benacer prestiamo i nostri abiti solo a stylist con una vera e profonda passione per la moda, persone che conoscono esattamente il valore del bene che andranno a maneggiare. Questo è fondamentale: sono opere d’arte e occorre trattarle come tali. Nella nostra casa di Parigi abbiamo dei manichini ai quali facciamo indossare i pezzi più speciali di Comme des Garçons e Jean-Paul Gaultier, alcuni rarissimi, acquistati in aste molto combattute: c'è una stanza/ufficio per gestire arrivi e partenze dei look. Alcuni capi li teniamo lì – ho un rack con più di 40 abiti da uomo di Yohji Yamamoto e decine di gilet di Franco Moschino – mentre gli altri sono conservati in un deposito a pochi passi da casa nostra.
Un pezzo di cui va fiero e uno che desidera?
Il capo preferito è un gilet di ceramica di Maison Martin Margiela, creato per la collezione A/I 1989, composto da frammenti di piatti di ceramica dipinta, uniti da filo di ferro e tela. È estremamente fragile, più un'opera d'arte che un capo funzionale. Lo conservo in una scatola, che ogni tanto mi piace aprire, per ammirarlo e lasciarmi ispirare. Il mio oggetto del desiderio? Sempre del designer belga. Il mio sogno è possedere qualsiasi creazione della sua prima collezione, P/E1989. Nutro una profonda ammirazione per il suo lavoro. Se dovessi scegliere un designer con cui poter collaborare in futuro non avrei alcun dubbio: sceglierei lui.