L'ultima volta che l’abbiamo incontrata aveva i bigodini in testa, una pancia finta e rincorreva la figlia sul set di The Crown. Ora, deposte corona e perle, c’è un Golden Globe a ricordarle ogni giorno quanto debba essere riconoscente a Elisabetta II. Claire Foy, 34 anni, ha aperto Venezia con il nuovo film di Damien Chazelle, Il primo uomo, il film su Neil Armstrong e l’allunaggio del 1969, assieme a Ryan Gosling, nei cinema dal 31 ottobre. L’attrice inglese interpreta sua moglie Janet. Un supporting role. Ma che supporto. È lei a illuminare le scene più significative della storia intima che racconta non l’astronauta ma l’uomo. C’è “moglie di” e “moglie di”. E Janet Armstrong non era una casalinga qualsiasi.

Da dove è partita per interpretare Janet?

Ho letto il libro che ha ispirato il film (First Man: The Life of Neil A. Armstrong di James R. Hansen) e mi sono concentrata sulla voce: dà il ritmo di come Janet si esprime, è molto indicativa di quel che era, una donna del Midwest americano. Che significa accento forte e un certo approccio alla vita. Rappresentarla come la moglie modello sarebbe stato un appiattimento ingiusto. Era estroversa, intelligente, sapeva fare tutto, aveva studiato all’università: è lì che lei e Neil si erano conosciuti. Ho ascoltato molti audio, volevo esprimere la sua forza attraverso la voce. E la sua fisicità importante. Era una sportiva, le piaceva nuotare, aveva un corpo atletico.

Janet e Neil perdono una figlia. Lei affronta il dolore. Lui non riesce neanche a parlarne e deve andare sulla luna per buttarlo fuori. Un altro titolo potrebbe essere I love you to the Moon...
In effetti sì. Quando ho iniziato a fare ricerca volevo capire come Janet potesse sopportare così tanto. E non parlo solo della perdita di un figlio: la pressione di dover crescere i bambini da sola, l’attenzione dell’America che voleva il quadretto della famiglia modello. Ma soprattutto volevo capire come potesse salutare il marito ogni mattina sapendo che un errore, nel suo lavoro, gli sarebbe potuto essere fatale, come è successo a tanti astronauti. L’uomo che amava e manteneva la sua il padre dei suoi figli sarebbe potuto non tornare più. Solo le mogli dei colleghi di Neil potevano capirla.

Le è mai capitato di interpretare un ruolo senza sentirlo totalmente suo?
A un certo punto della preparazione o della lavorazione ho bisogno di una connessione. Toccando legno, fino a ora, non è mai successo. A volte quell’epifania avviene leggendo il copione, altre volte durante le prove, altre ancora direttamente sul set. È mio dovere lottare per trovarla, fino alla fine.

Una tragedia come quella vissuta dagli Armstrong rompe qualcosa per sempre?
Non posso parlare per loro ma Janet non poteva arrendersi, perché c’era un altro figlio e poi ne è arrivato un altro ancora. Il suo atteggiamento non era: “Neil, dobbiamo avere speranza e andare avanti”. Piuttosto: “La nostra vita continua, c’è qualcuno che ha bisogno di noi e questa perdita deve significare qualcosa, non devi più voler morire e basta”. Ma Neal non ce la fa...

Ryan Gosling e Claire Foypinterest
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Ryan Gosling e Claire Foy

Cosa porterebbe sulla luna?
Io sulla luna? Qualcosa che non mi facesse perdere la ragione. Per nessun motivo al mondo andrei sulla luna, sarebbe una punizione, del tipo: “Guarda Claire che ti spedisco sulla luna!” (ride). Soffrirei sicuramente di attacchi di panico e sballonzolerei da una parete all’altra della navicella. L’isolamento e la paura di poter sparire nell’oblio sarebbero insopportabili, non riuscirei a pensare ad altro... Da quel che ho capito si prova un tale senso di solitudine, è un’esperienza così spirituale, che ti dà una pace infinita, al di là di ogni immaginazione.

Dove va per trovare un po’ di pace?
Amo Londra ma a volte la trovo opprimente. Vado dove posso passeggiare e respirare. Sono nata a Manchester e per qualche anno ho vissuto in campagna. Allora non la apprezzavo per niente, mi lamentavo sempre che non c’era nulla da fare, neanche un autobus per la città. Ora rimpiango quelle distese di prati e campi, quel senso di libertà. Camminare mi aiuta a meditare.

Si aspettava che The Crown cambiasse la sua vita così tanto?
Mi ha sorpreso. Quando ho iniziato a recitare avevo 13 anni. Ne avevo bisogno e l’avrei fatto comunque, sarebbe rimasto un hobby. La gioia che provo nel fare questo mestiere è la stessa di quando non avevo un penny. È una fortuna e una rarità poter esplorare quello che sei in grado di fare nel tuo lavoro. Ecco, The Crown non ha cambiato la mia vita ma la mia carriera.

È stata dura arrivare?
Non ho mai pensato a una carriera. Essere pagata per recitare era un’aspettativa troppo alta, che non mi concedevo. Quindi, ogni piccolo passo mi ha sorpresa e travolta. Mi aspetto da un momento all’altro che qualcuno mi dica: adesso ti spiego io perché è successo proprio a te. Io non lo so. So solo di essere stata fortunata. È tutto una meravigliosa sorpresa.

In Quello che non uccide, sequel di Millennium, sarà Lisbeth Salander: una bella trasformazione...
È il ruolo di una dura. Dovevo diventare forte. Massicciamente forte. Ho sempre fatto tanto sport ma da qualche anno soffro di artrite giovanile. Ero pronta ad accettare che il mio corpo diventasse decrepito invece il trainer del film mi ha illuminato: “Se lo rendi più forte non ti farà male”. Wow, a 34 anni ho avuto questa rivelazione.

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È diventata un’esperta di donne forti...
Più invecchio, più mi rendo conto che siamo tutte uguali. Tutte lottiamo, ogni giorno; nessuno ha le risposte... Questa cosa delle donne forti non la appoggio più perché parte dall’idea – ingannevole – che siamo mediamente deboli. Siamo tutte forti, per sopravvivere lo dobbiamo diventare.

Le posso chiedere se è mai stata “risarcita” per la disparità di paga rispetto al suo collega Matt Smith per The Crown?
Ecco, ne approfitto per chiarire che io non ho mai chiesto risarcimenti a Netflix, sono stati altri a sollevare la questione. Detto questo, credo che la parità di stipendio sia una battaglia decisiva per noi donne. È “la” battaglia.