All’ingresso della mostra che per la prima volta porta in Italia Tracey Emin con oltre 60 opere, spicca sulla facciata di Palazzo Strozzi la scritta al neon del titolo: Sex and Solitude. Un’antitesi estetica? Una provocazione concettuale? Un'autocitazione di chi con il “gas lucente” ha scritto una poesia per il suo ex fidanzato (Love Poem for CF, qui visibile)? Perché proprio Firenze e perché l’apollineo Palazzo Strozzi, l’artista british lo ha spiegato con un semplice: «Perché ha tutto». Come osserva Nicholas Cullinan, che da direttore della National Portrait Gallery le aveva affidato il design di una nuova porta di accesso al museo, la città culla del Rinascimento può essere il luogo del destino per una donna di continue rinascite come Tracey, che del suo corpo ha fatto materia plastica e racconto di desideri, sconfitte e resurrezioni.
La mostra segue quelle tappe emotive, così personali e universali: da Exorcism – con il riallestimento della performance del 1996 quando, nuda e rinchiusa per tre settimane, ricominciò a dipingere dopo sei anni e due aborti – a A different time, il tempo del lockdown, sospeso e insieme inesorabile che l’ha segnata con la malattia, il tumore per cui sfiora la morte e con il quale tuttora convive. In ogni scultura, video, dipinto, ricamo o disegno, un’unica urgenza: «La cosa più bella è l’onestà, anche se è molto dolorosa da guardare».
Tracey Emin album & quote
«Quando ero più giovane, facevo confusione tra solitudine e isolamento. La solitudine non è isolamento. La solitudine è forza. C’è una differenza enorme tra essere bloccati sulla cresta di una montagna senza poter salire né scendere, e arrivare fino alla vetta, e una volta là guardare giù e provare un senso di conquista. È un’enorme differenza»
Sex and solitude, non Sex in solitude o Sex or solitude: non sono contrapposti, né l’uno nell’altro, procedono fianco a fianco. Da giovane era il sesso ad attirarmi adesso che sono più vecchia la solitudine è una delle cose più importanti per me Il sesso è sempre stato molto complicato per me. Quando ero giovane, era più che altro un mezzo per andare da qualche parte, per muovermi, esplorare, vedere il mondo attraverso gli altri e sentirli nel profondo. Poi mi sono resa conto di ricevere molto meno di quanto stessi dando, così sono tornata alla castità. Nella mia vita ho attraversato lunghe fasi di astinenza dal sesso, la più lunga è durata circa dieci anni. Credo di stare attraversando un’altra fase simile, ma stavolta è diverso per via di tutte le operazioni che ho subito. Il mio corpo è profondamente segnato da ciò che gli è accaduto. Penso che il corpo abbia una sua memoria: il mio è stato ferito dall’amore, dal sesso, dagli interventi chirurgici, dallo stupro, dalle malattie trasmesse sessualmente e dagli aborti. È come se quella parte di me fosse insensibile ormai, per ragioni sia psicologiche che fisiche. Oggi per me c’è qualcosa di più importante del sesso: è l’amore, sì, senza dubbio, l’amore è più importante».
«The Doors - Le donne nella storia sono significativamente sottorappresentate. Non volevo ritrarre figure precise o identificabili perché pensavo che le porte della National Portrait Gallery dovessero rappresentare donne di ogni età e cultura, nel corso del tempo. Ho usato me stessa come riferimento mentale, ma il risultato finale è una moltitudine di donne diverse: alcune esistono nella mia mente, altre forse nella realtà, nel qui e ora o nel passato. Come accade per ogni forma d’arte, spetta all’osservatore discernere i propri sentimenti, interpretare ciò che vede o chi vede. Voglio che la gente si fermi davanti alle porte e dica: “Somiglia a mia madre, alla mia migliore amica, a mia figlia».
«Ogni Pasqua dipingo una crocifissione. Ogni singola Pasqua. Ho dipinto il blu, questo sfondo davvero blu, e poi ho dipinto la forma della croce. E da quel punto in poi può andare in qualunque direzione, può diventare quasi qualsiasi cosa, e spesso le crocifissioni le dipingo e poi dipingo qualcosa di completamente diverso sopra. Solo io so che sotto c’è una crocifissione. [...] Amo il blu che emerge, amo la luce che si vede dietro la sua testa, amo il modo in cui è palesemente sofferente, e amo il fatto che sia un Gesù che non avevo mai visto prima, è il mio Gesù. Sempre con il mio lavoro, sempre con il mio modo di pensare, la religione ha avuto un ruolo, ma non in senso religioso, più come metafora, come aneddoto, guardando oltre la storia. Ho sempre pensato che numerose storie della Bibbia siano molto più antiche della Bibbia stessa. È come se fossero parte della nostra psiche».
«Ho smesso di dipingere quando ero incinta. L’odore dei colori a olio e della trementina mi faceva sentire male fisicamente, e anche dopo i miei aborti, non riuscivo più a dipingere. È come se avessi avuto bisogno di punirmi smettendo di fare la cosa che amavo di più. Odiavo il mio corpo; avevo paura del buio; avevo paura di dormire... Il punto è che volevo davvero tornare a dipingere. Per me, la pittura riguarda l’essenza stessa della creatività, è vicina al divino, è un mondo a parte, è come entrare in un’altra dimensione, un altro spazio, qualcosa che non è umano. E non dipingevo perché ero intrappolata in questo strano senso di colpa e nell’autopunizione derivata dall’aver abortito. Non riuscivo a lasciarmi andare».
«Mia madre mi amava moltissimo, ma quando rimase incinta, non si aspettava di avere due gemelli. Andò ad abortire che era all’incirca al terzo mese, e proprio all’ultimo momento, mentre stavano per farle l’anestesia, cambiò idea, si alzò e se ne andò. Questo mi ha fatto capire quanto mia madre mi volesse e, in un certo senso, anche quanto non mi volesse. Mi ha anche fatto capire quanto volesse rimanere sé stessa, quanto tenesse alla sua indipendenza. Sono sempre stata educata all’indipendenza. Mia madre cominciò a darmi la pillola che avevo quattordici anni per assicurarsi che non rimanessi incinta, e di questo le sarò sempre grata, perché c’erano buone probabilità che accadesse. E in quel caso non so cosa sarebbe successo a me o alla mia vita».
«Non ho fede e non l’ho mai avuta: mio padre era mussulmano e mia madre di famiglia gipsy, sono cresciuta in un ambiente in cui si credeva più alla magia, ai fantasmi e alle sedute spiritiche. La mia fede viene dalla vita e dalle cose che mi sono capitate, alcune anche terribili. La peggiore è stata quattro anni e mezzo fa la scoperta di avere un tumore e solo sei mesi da vivere: ero convinta di morire, e l’ho accettato - come parte dell’esistenza. E, davanti alla certezza della morte, ho iniziato a pensare alla mia vita, e ho iniziato a essere felice, non morirò! Non ho mai pensato di poter essere felice, ma è successo. È stato come se all’improvviso mi avessero tolto un peso, il peso dell’esistenza. Adesso guardo dall’aldilà. “Sai“, ho detto a un’amica pochi giorni fa, “sai forse sono davvero morta e questo è il paradiso” Ma anche se sei in paradiso l’inferno è qui, bisogna guardarlo e capire che sono entrambi dentro di noi. La maggior parte delle persone dopo tutte le operazioni che ho subito – isterectomia, parte dell’intestino, della vescica - muore, e io invece sono qui. Questo è fede!».
«Quando ero più giovane l’arte pubblica mi faceva infuriare. La trovavo troppo maschile, pretenziosa, spesso poco attraente e un po’ imbarazzante se non estremamente conservatrice. Non riuscivo a capire perché non esistessero opere d’arte pubblica più appaganti dal punto di vista emotivo. Poi ho capito: il fatto è che c’è poco spazio per l’emozione nella sfera pubblica o quantomeno è un sentimento che viene considerato pericoloso. Io comunque volevo provarci, così ho iniziato a fare sculture pubbliche di dimensioni ridotte, come Roman Standard (Insegna romana) che è il mio uccellino su un palo ed è molto piccolo o Baby Things (Cose da bambini): sculture di abiti e oggetti per neonati lasciate in diversi luoghi della città…Poi ho deciso di fare l’esatto contrario, evitando però di fare il macho e mantenendo un’impronta spiccatamente femminile. Così ora, a Oslo, c’è una mia scultura alta nove metri dal titolo The Mother (La madre) che rappresenta essenzialmente mia madre: una donna anziana in ginocchio. Non ho mai visto una scultura pubblica o una statua di una vecchia prima d’ora, quindi penso di aver fatto davvero qualcosa di nuovo e in certo modo sensazionale».
«Il mio senso del limite? Ho più confini di quanto si creda, quando ero giovane mi hanno imposto poche regole, ero molto libera. Adesso rispetto di più la privacy, forse non rifarei più un’opera come il letto o la tenda…anche perché avrei pochi nomi da metterci. Il mio livello di autocritica è molto forte perché sempre mi valuto. Quello che però voglio evitare è di invecchiare giudicando: non voglio giudicare rispetto a me, giudico solo me stessa»
«La salvezza per me è pace. La salvezza è perdono e per essere perdonati la cosa più forte che puoi fare è perdonare. E quando hai davvero perdonato qualcosa o qualcuno... provi un incredibile senso di liberazione. Cresci mille volte. Per me, questa è una delle più grandi sensazioni di salvezza: comprendere e perdonare situazioni, persone, tempo, perdite. Non voglio vivere con il rancore, non voglio vivere con l’odio e la paura. Più di tutto, le cose con cui non voglio vivere sono l’aggressività̀ e la violenza dentro di me. Voglio essere libera da tutto questo. Più sei libera da queste cose, più̀ la vita diventa facile. E più la mia vita diventa facile, più sono felice, il che significa che posso concentrarmi sulle cose che amo davvero, ossia l’arte».
«Quando sei incinta, non decidi di voler abortire. Decidi che non puoi avere un bambino. Ed è una realtà molto diversa… Ora la pittura è nel mio sangue, fa parte di me, scorre in me tanto quanto il disegno. Ma mi ci è voluto tutto questo tempo per capirlo davvero e per fino in fondo».
«Voglio che le persone provino qualcosa quando guardano il mio lavoro. Voglio che sentano se stesse. È la cosa più importante…Quando avevo quindici anni, vedevo le cose in modo molto diverso da ora. Attraversiamo fasi alterne nella vita e lo stesso vale per i nostri ricordi, che cambiano anche in base alle esperienze. È come la lettura della mano: il palmo della mano cambia man mano che si invecchia, allo stesso modo, col tempo, le esperienze diventano qualcosa di diverso, proprio come le linee delle nostre mani. Lo stesso discorso vale per la memoria e per il modo di percepire le emozioni. Una cosa che vent’anni fa mi aveva turbato nel profondo, magari oggi non mi fa nessun effetto. Oppure al contrario, qualcosa che cinquant’anni fa non aveva suscitato in me alcuna impressione, inizia a emergere in forma di ricordo e di emozione. Molte di queste cose sfuggono al nostro controllo, fanno semplicemente parte del DNA. Sono qualcosa con cui conviviamo, crescono, si espandono, si riducono. È così che fanno i ricordi. Infatti, quando dipingo, quando lavoro, non so mai che cosa accadrà fino a che non ci entro dentro».