il 5 febbraio 2003 quando il segretario di stato americano Colin Powell agita una provetta davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: la prova, secondo l’amministrazione Bush, che il dittatore iracheno Saddam Hussein sarebbe in possesso di “armi di distruzioni di massa”. Questa locuzione, “armi di distruzioni di massa”, viene ripetuta da Powell ben 17 volte: dispositivi chimici e, perché no, anche nucleari, nelle mani del sanguinario tiranno di Baghdad. Non era vero niente. Il resto lo conoscete già: l’invasione dell’Iraq, il rovesciamento del regime, centinaia di migliaia di vittime civili, un’instabilità permanente che porterà, negli anni successivi, alla nascita dell’Isis da una parte e, dall’altra, all’assorbimento di quello Stato, con l’avvento degli sciiti al governo, nell’orbita iraniana. È il big bang di un gigantesco domino geopolitico che attraversa il Medio Oriente e ridisegna i confini. Ma quella provetta agitata da Powell (il più riluttante all’invasione, dunque il prescelto da Bush in quanto più credibile) ci ricorda che la propaganda di guerra è sempre esistita. Con una differenza che segna decisamente l’attuale epoca del caos: oggi non serve più agitare prove, seppur false, per giustificare un’aggressione. Viviamo nella geo-giungla dei più forti, dei più bulli, dove ogni organizzazione internazionale è zittita. E il Medio Oriente è un mondo alla Mad Max, attraversato da missili e carri armati, droni assassini e cecchini, trivellato da gigantesche bombe perforanti sganciate da bombardieri stealth. Purtroppo, rispetto al magnifico e apocalittico film con Mel Gibson, quello a cui stiamo assistendo è tutto vero. Nell’era della paura e del caos, serve allora qualche punto fermo, occorre provare a capire e razionalizzare.
Israele
Guidato da Bibi Netanyahu, dichiarato criminale di guerra dalla Corte Penale Internazionale per i massacri a Gaza, ha scelto di attaccare l’Iran apparentemente per distruggere la sua capacità di realizzazione della bomba nucleare. “Potrebbero arrivare all’atomica in un anno o pochi mesi” ha detto senza fornire prove precise. D’altronde, come ricorda Andrea Nicastro sul Corriere della Sera, dieci anni fa aveva detto “L’Iran è a poche settimane da un intero arsenale di bombe atomiche”, tredici anni fa che “Gli mancano sei mesi per l’atomica”, diciannove che “L’Iran sta accelerando per produrre 25 bombe atomiche l’anno” e trent’anni fa che “L’Iran sarà capace di produrre atomiche in 3-5 anni”. Possiamo dunque credere a Netanyahu? Resta il fatto che la guerra dei 12 giorni all’Iran, grazie all’aiuto decisivo delle maxi bombe di profondità americane sganciate dai bombardieri stealth Usa, ha danneggiato i siti nucleari di Natanz, Isfahan e Fordow e portato all’uccisione di una sessantina di capi militari e scienziati iraniani. Oltre a numerose vittime civili su entrambi i fronti. Nessuno oggi è in grado di capire se il progetto della bomba atomica sia stato davvero ritardato o annientato. D’altronde, nella nuova era dei bulli, le organizzazioni internazionali sono bandite dalle ispezioni e i media che indagano delegittimati dal potere politico. Le dichiarazioni dei vari protagonisti, da Trump a Netanyahu fino all’ayatollah Khamenei, assomigliano alle grida delle paranze di strada, un inquietante mix di minacce e insulti, un persistente “vieni qui a dirmelo se hai il coraggio” che ci precipita in un clima insieme mortale e infantile. Ammutolita l’Europa, irrilevante l’Onu, il Medio Oriente (in prospettiva l’intero pianeta?) si sono trasformati in un ring dove si pratica il wrestling geostrategico. Va reso atto però a Netanyahu che, isolato per via di Gaza, con l’attacco all’Iran ha recuperato il consenso dell’opposizione interna e avuto la conferma dell’appoggio militare incondizionato degli Usa. Nota bene: alla fine dei conti, è sbagliato pensare che esistano due Israele. Quando si tratta di minacce esterne e di questione palestinese, destra e sinistra sono sfumature e solo un sistema di sanzioni e pressioni internazionali potrà fermare le aggressioni militari e le occupazioni illegali di Tel Aviv.
Iran
A Teheran la propaganda oggi raggiunge vette ridicole. Dopo aver assistito alla decapitazione dei capi delle forze armate, alla fuga dell’ayatollah Khamenei in un bunker dove ha dovuto interrompere tutti i contatti col mondo esterno, al danneggiamento importante del suo programma nucleare (anche se non sappiamo fino a che punto, né dove siano quei 400 chili di uranio arricchito probabilmente sfuggiti agli attacchi Usa), il regime grida alla vittoria convocando in piazza i suoi sudditi. Ma dietro i proclami, la guida religiosa è in crisi da molto tempo. Il che, conoscendo la fierezza straordinaria del popolo iraniano, non significa affatto che cadrà per mano israeliana o americana. Gli unici capaci di rovesciare una dittatura brutale saranno loro, gli iraniani. Per molti mesi, dopo la morte di Mahsa Amini, uccisa dalla polizia islamica per non aver messo il velo, la popolazione ha lottato per la libertà e le riforme. I pasdaran hanno resistito e represso. Poi, l’innalzamento del livello di scontro con Israele, prima attraverso Hezbollah in Libano e Houthi nello Yemen, poi nel confronto diretto, hanno ricompattato l’opinione pubblica. Resta il fatto che oggi l’Iran è fortemente impoverito e piegato da decenni di sanzioni internazionali, ancora più arroccato contro le ispezioni nucleari dell’Aiea. Ricordiamo che a rompere il tavolo negoziale sul nucleare al quale Teheran si era seduto con gli Usa e la comunità internazionale fu proprio Trump nella prima presidenza, ansioso di buttare all’aria tutto ciò che aveva fatto il suo predecessore Barack Obama. Oggi la repubblica islamica, isolata e sotto attacco, vive i suoi momenti peggiori: la Russia di Putin, storica alleata, preferisce coltivarsi i buoni rapporti col presidente americano, Hezbollah è in ginocchio dopo l’offensiva israeliana in Libano, gli Houthi in Yemen hanno assaggiato le bombe Usa. L’Arabia Saudita, arcinemica di Teheran, annaffiando di petrodollari Usa ed Europa e comprandone il consenso, tesse la tela dei Patti di Abramo, con i quali rafforzerà le relazioni fra Israele e il mondo arabo sunnita, con tanti saluti alla causa palestinese. Quanto alla Siria, l’alleato Assad non c’è più. Al suo posto, a Damasco domina Al-Joulani – nuovo nome da presidente: Ahmad al-Sharà – uomo di fiducia del capo dell’Isis Al Baghdadi e fondatore del gruppo terroristico Al Nusra, un tagliagole che ha indossato il doppiopetto, sospeso sine die il processo democratico dopo la cacciata del precedente dittatore e ordinato eccidi tribali contro la minoranza alawita.
Solo un gretto e ridicolo pregiudizio può dipingere il popolo iraniano come un’accolita di fanatici pronti allo sterminio atomico. L’Iran ha una classe media colta che coltiva la dissimulazione come stile di vita, parando da un lato la repressione del regime e coltivando fra le mura domestiche, gli affari e i luoghi di studio un progetto di affrancamento laico dalla dittatura. Ma questo riscatto, tanto agognato, non potrà che partire dall’interno e sarà ostacolato da ulteriori aggressioni esterne. Urge un nuovo tavolo negoziale e un allentamento delle sanzioni: nulla è più pericoloso di una grande nazione senza vie d’uscita.
Palestina
L’immensa vergogna che fingiamo di non vedere. Secondo uno studio del professor Michael Spagat, emerito della Royal Holloway University di Londra, pubblicato dal quotidiano israeliano Haaretz, circa 100mila persone potrebbero essere state uccise a Gaza: molte di più di quelle dichiarate dal ministero della salute di Gaza. Una ricerca basata sugli scomparsi dichiarati dai nuclei familiari che dunque tiene conto anche dei corpi mai più ritrovati perché presumibilmente annientati sotto le macerie. Gaza è l’orrore incarnato, una spianata di macerie dove si muore in coda per il pane. Netanyahu, realizzando un progetto di pulizia etnica, ha in mente di spostare due milioni di persone fuori dalla Striscia (ma dove?) e affidare ai sauditi e agli emiratini la gestione del territorio. Trump non vede l’ora di inviare i suoi amici immobiliaristi americani (la “French Riviera d’oriente”, ricordate?) ma l’ultradestra messianica israeliana, impersonata dai ministri Smotrich e Ben Gvir, vuole distruzione e occupazione totale a oltranza. Sulla pelle dei palestinesi si gioca una partita orribile segnata da interessi economici, indifferenza e manifesto razzismo. Intanto, i 20 ostaggi israeliani superstiti sono merce di ricatti incrociati e Hamas gioca al tanto peggio tanto meglio. La vita, in Palestina, non vale nulla. In Cisgiordania i villaggi vengono attaccati da squadre paramilitari di coloni ebrei con il tacito consenso del governo. L’opzione “due popoli due stati” si sta trasformando in “uno stato un popolo” (quello di Israele). La guerra permanente, anche contro Libano e Yemen, è la via con la quale Netanyahu cementa il suo potere e sfugge ai processi per corruzione in patria.
Usa ed Europa
Washington non è in Medio Oriente ma come se lo fosse. Le promesse di non belligeranza di Trump sono state tradite. Annunciava pace in Ucraina e a Gaza, non ha ottenuto nessuna delle due. In compenso ha bombardato l’Iran seminando incertezza. Vige la legge del più forte, ogni corpo intermedio e strumento democratico subisce torsioni inimmaginabili. Benvenuti nel Grande Caos dove governano affari miliardari e convenienze del momento. Mentre l’Europa si riarma e mette la testa sotto la sabbia. Se prima l’Occidente, con mille contraddizioni, poteva parlare di democrazia e libertà, oggi muore per le guerre provocate, l’ipocrisia e l’ignavia di fronte a generazioni di giovani espropriati del futuro. Da Khan Younis a Sana’, da Jenin a Beirut, da Aleppo a Teheran: come pensiamo di parlare a un mondo al quale abbiamo tolto con le bombe ogni speranza?