È davvero giunto il tempo di cambiare l’istituto del referendum popolare. Così com’è oggi, si rivela un anelito frustrato di democrazia dal basso e uno spreco di denaro ed energie. Riflettiamoci: pensato dai nostri padri costituenti quando l’affluenza alle urne era oltre il 90%, oggi sconta cambiamenti epocali, una fase di disaffezione dalla politica e di sfiducia nel sistema che rasentano il nichilismo. Eppure anche gli ultimi quesiti, quelli dell’8 e 9 giugno scorsi, avevano un senso, specie tenendo conto della palude in cui si è trasformato il Parlamento.

Con circa cento decreti legge varati dal nostro governo – un’enormità, un record – Camera e Senato sono di fatto ridotti a decretifici utili solo a convertire, magari sotto la spada di Damocle di un voto di fiducia (come accaduto con il discusso decreto sicurezza). Di fronte a un’aula sempre più sorda e grigia (oltre che falcidiata dall’assenteismo), proporre ai cittadini di attivarsi direttamente per cambiare la legge sulla cittadinanza o sulla sicurezza sul lavoro non era affatto peregrino: era però platonico. A questo punto, serve che le forze politiche, per evitare che gli italiani si avvitino ancor più nell’astensione, riformino questa consultazione popolare. D

ue suggerimenti: raddoppiare il numero di firme da raccogliere per proporre un quesito e richiedere come quorum, anziché il 50% più uno degli elettori (ormai a stento raggiunto alle elezioni politiche), una partecipazione che sia la metà più uno dell’affluenza alle ultime elezioni nazionali. Si finirebbe così per rivitalizzare un istituto che più democratico non si può.

Ma per questa riforma servirebbero forze politiche responsabili e davvero innamorate del “popolo”, non soltanto quando fa loro comodo. E invece, alla vigilia degli ultimi referendum, abbiamo letto e ascoltato molti appelli all’astensione, una sorta di invocazione al “diritto alla grigliata”. Alcuni di essi sono arrivati da altissime cariche istituzionali, dalla premier al presidente del Senato. Gli stessi che oggi esultano, pericolosamente, per il loro fallimento.