Kilmar Ábrego García è un salvadoregno di 29 anni che vive negli Stati Uniti da quando ne aveva 16. Nello stato del Maryland ha ricevuto un permesso di soggiorno, una sorta di permesso umanitario motivato dal pericolo, una volta tornato in patria, di essere ucciso da una pericolosa gang locale. Negli Usa, dove lavorava regolarmente, ha trovato moglie e fatto un figlio, entrambi cittadini americani.
Il 15 marzo 2025 è stato arrestato da agenti in borghese con l’accusa, del tutto senza prove, di essere legato all’organizzazione criminale salvadoregna MS13. Gli agenti lo hanno ammanettato di fronte al figlio piccolo appena preso da casa della nonna, poi hanno telefonato alla moglie e le hanno intimato di presentarsi entro dieci minuti, altrimenti il bimbo sarebbe stato affidato ai servizi sociali. Infine Kilmar è stato imbarcato su uno dei tre aerei pieni zeppi di immigrati salvadoregni in catene: non ha potuto far valere i suoi diritti, non ha potuto telefonare a un avvocato.
È stato deportato, nonostante il divieto della Corte suprema, con altre centinaia di centroamericani privi di un capo di accusa nel famigerato carcere di massima sicurezza Cecata, a El Salvador. Il presidente salvadoregno, infatti, ha accettato di far sparire dentro quell’inferno di cemento e abusi gli espulsi inviati da Trump in cambio di 15 milioni di euro. Tanto vale la loro vita, un prezzo calcolato a forfait.
Mentre sugli altri deportati vi erano perlomeno degli indizi di reato, l’arresto di Kilmar si è rivelato subito, per ammissione del dipartimento di giustizia Usa, un errore. Kilmar non ha fatto nulla, a parte alcuni grossi tatuaggi sulle braccia. Lo sbaglio non lo farà però tornare a casa. Resta lì, tumulato, in Salvador. Lo hanno solo spostato di prigione, sempre in isolamento. Probabilmente non rivedrà la sua famiglia: il governo locale non intende infatti rispedirlo negli Usa, né Trump riprenderselo. Questo giovane innocente e la sua famiglia sono alcune delle vittime del collasso della democrazia americana.