Qualche sera fa sono andato a festeggiare il mio compleanno in un ottimo ristorante romano gestito da un oste che conoscevo per bravo ma che, dopo quella cena, ho anche scoperto essere arguto. Appena seduto, ho notato al centro della tavola apparecchiata di tutto punto un cubo di Rubik. Avete presente quel diabolico giochetto che si risolve completando le sei facce dello stesso colore? Un ostacolo insormontabile per quelli della mia generazione ma risolto in pochi secondi dai nostri figli che hanno studiato le soluzioni su TikTok o Instagram. Ecco, il cubo stava lì, misteriosamente al centro di ogni tavolo del ristorante. Alla richiesta del perché, il proprietario del locale ha risposto così: “La maggior parte delle coppie che si siede a cena non parla. Dopo aver scorso il menu, trascorrono il tempo in silenzio, scrollando ciascuno il proprio cellulare. Silenzi interminabili rotti soltanto dal rumore delle posate. Allora ho pensato che il cubo potesse dar loro un motivo di interagire e scherzare fra loro”.
Ho ricordato tutte le volte in cui ho strappato lo smartphone dalle mani dei miei figli a tavola. Le volte in cui vicini di desco immusoniti mi hanno strappato battute sulla durata eccessiva dei matrimoni. Poi arriva l’oste romano e mi illustra con un cubo di plastica quanto l’incomunicabilità sia il male del decennio e il veleno del tempo libero.
Il guaio non è solo l’abisso con i nostri figli - e chiunque abbia guardato la splendida miniserie Adolescence sa di cosa parlo, dell’incapacità di sapere chi si cela dietro quelle maschere – ma l’afasia fra noi genitori. Un tempo si andava fuori a cena per riallacciare, discutere, progettare. Oggi si compulsano le storie su Instagram e tutt’al più si condividono con una risata. Per inseguire i ragazzi e il loro universo emotivo racchiuso in un emoji, siamo caduti anche noi nel grande acquario dei social. E ci siamo ammutoliti. Sogno un ristorante che offra lo sconto a chi lascia il cellulare all’ingresso. Prossima volta lo propongo all’oste di Rubik.