Il mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale a carico di Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Gallant, lungi dall’esprimere antisemitismo come vuol fare credere il premier israeliano, ribadisce un punto molto importante: l’esistenza di un diritto internazionale sovraordinato alle leggi nazionali. Pare una banalità ma non lo è. Di fronte allo scandalo di questa sentenza, tacciata di chissà quale oscura volontà politica, c’è una tragica e documentata verità: le forze armate israeliane, dopo la terribile strage dei kibbutz perpetrata da Hamas il 7 ottobre 2023, hanno commesso e reiterato crimini di guerra.

Parliamo di stragi di civili, torture sui prigionieri, blocco degli aiuti umanitari e strategia della fame: moltissimi innocenti sono stati ammazzati – all’incirca la metà di loro erano minorenni – ed è stata applicata una sistematica pratica di “displacement”, di spostamento coatto degli abitanti della Striscia di Gaza all’interno di un perimetro ridotto a macerie e privo di sbocchi esterni. Circa l’80% delle abitazioni non esiste più, gli ospedali sono stati distrutti così come scuole e università: alla conta dei morti, circa 44 mila, andranno aggiunte le vittime future causate dal collasso del sistema sanitario.

Non so se a Gaza si sia commesso un genocidio, e francamente non mi appassiona la contesa terminologica. Certamente abbiamo assistito, inerti, a una pulizia etnica della quale è giusto individuare i responsabili. Tutto è iniziato col pogrom di Hamas? Certo, ma è lecito fare una simmetria tra un gruppo terroristico e uno stato democratico iscritto (almeno formalmente) nel sistema delle regole internazionali? Israele ha il diritto di difendersi, ma nel quadro di norme che esistono anche in guerra: questo è il senso della decisione della Corte dell’Aja. In Israele, sono in molti a pensarla come quel tribunale, a partire dal quotidiano più antico ed autorevole del paese, Haaretz. Che, infatti, il governo di Tel Aviv ha deciso di punire con il taglio della pubblicità di Stato. A riprova che quella che è stata a lungo definita “l’unica democrazia del Medio Oriente” lo stia diventando sempre di meno.

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