Giovedi scorso ho ospitato a Piazzapulita il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Con lui ho affrontato il tema Albania, inteso come piano che il governo ritiene decisivo e salvifico per dirottare laggiù il maggior numero di migranti possibile. Ciò che più mi ha colpito della sua posizione è il ruolo residuale che egli assegnava alla magistratura nella vicenda.

Mi spiego: ogni trattenimento di immigrato nel Cpr deve essere autorizzato da un giudice della procura di Roma. Tale decisione va presa sulla base di una serie di valutazioni, fra le quali l’età e la condizione del migrante e la sicurezza della nazione di provenienza. Per Piantedosi, le decisioni dei magistrati non rappresentavano evidentemente un ostacolo e sarebbero comunque state bypassate dal governo. Invece, proprio i giudici di Roma hanno determinato il fallimento del modello albanese, stabilendo, sulla scorta di una sentenza della Corte di Giustizia Europea, che Egitto e Bangladesh, paesi di provenienza dei primi immigrati deportati in Albania, non sono sicuri.

Apriti cielo: come si permettono i giudici di intralciare l’opera del governo? Come osano fermare l’esecutivo del popolo? Nella guerra scatenata da Palazzo Chigi contro i magistrati si dispiega in pieno l’essenza stessa del turbo-populismo nostrano: nulla può frapporsi tra eletto e popolo. Nessun potere può limitare quello derivante dal voto, nessun corpo intermedio può intralciare l’esecutivo. Così, nel calderone disordinato dei “guastatori” entrano giudici e sindacati, giornalisti e ragionerie dello Stato, ogni genere di contropotere o sorveglianza.

Ma attenzione: non tutti i contrappesi sono uguali. La magistratura, infatti, è un potere separato posto dalla Costituzione sullo stesso piano del Governo e da esso completamente indipendente. Pensare di metterlo fuori causa per decreto e ridurlo a mera articolazione dell’esecutivo è nei piani di questo governo e del suo progetto di premierato. E il progetto Albania sarà il primo importante banco di prova.