Ogni estate che si rispetti attraversa un periodo d’afasia. Il mondo sembra scivolare in una specie di risacca, in un mesto dondolio, in una strana assuefazione. Sarà perché i giornalisti e gli addetti al settore della comunicazione si congedano, vanno progressivamente in vacanza. Le prime pagine dei quotidiani e i servizi alla televisione si diradano. Le informazioni giungono vaghe, sporadiche. Vige uno strano, rassicurante ronzio. Per coprire le settimane di ferie, di buco, di chiusura si dà fondo al materiale d’archivio, alle cosiddette rassegne: ampie vedute sul passato. Sistemi d’evasione a cui strizzare l’occhio. I conflitti, le guerre arretrano in un altrove a cui si accede in maniera remota, con una sola parte di sé. Perfino Palazzo Chigi sospende i lavori. L’unico aspetto dell’esistenza storica e politica che rifiuta ostinatamente di deporre la sua attività è il collasso del clima. Anzi, d’estate raggiunge il suo apice e a causa di quello che sembra un bizzarro gioco delle tre carte continuiamo a trovarcelo davanti, a pescarlo dappertutto.
Oltre al caldo estremo, che ricorda a tutti la presenza ormai pervasiva del riscaldamento globale, l’estate è diventata da tempo la cartina di tornasole della questione ambientale. La sua mappa geografica, forse anche mentale. Non possiamo fare a meno che constatarlo, prenderne atto misurandola palmo a palmo. Forse è per questo che dilaga un senso di nostalgia, di esaurimento che talvolta preme, supplica di tornare al regime di acquiescenza invernale. Certo, anche le città sono inquinate. Le polveri sottili si sollevano in aria, tracimano dai tubi di scolo delle automobili, delle industrie, degli allevamenti intensivi, serrando territori come la Pianura Padana in una mortifera cappa azzurrina. Ma a partire dalla metà di giugno, gli eventi atmosferici estremi si riversano con la frequenza insindacabile di una piaga divina: rovesci d’acqua che rischiano di mandare a monte il raccolto di un intero anno, incendi, nubifragi che divellono alberi e strade. La siccità riduce gli animali da pascolo a morire di sete. I decessi in Europa a causa del caldo sono stati, secondo le fonti, 50.000 solo nel 2023. In queste ultime settimane, Marche e Campania tentano un provvisorio razionamento idrico, il presidente della regione Abruzzo ha chiesto lo stato d’emergenza. La scarsità di precipitazione mette a repentaglio il comparto della produzione ortofrutticola, cerealicola, arborea, vitivinicola.
Si è circondati da un mondo riarso delle sue risorse che brucia, crepita, si prosciuga. Spurga continuamente sostanze infette. Diventano virali le immagini dell’Adriatico invaso dalla mucillagine, una coltre densa e schiumogena provocata dagli smottamenti dei fondali esposti ad alte temperature. E non si tratta neanche più solo di episodi accertati, riconducibili a qualche cosa di programmatico, di scientifico. È un presagio, una sensazione intuitiva, che sa, attesta che l’acqua del mare ormai è torbida, soprattutto quando i gommoni e gli yatch invadono il litorale e inevitabilmente lasciano dietro di sé i liquami dei loro motori. Troneggiano, fieramente, a pochi metri dalla riva, prolificando via via che l’estate va inoltrandosi, e proprio in virtù di questa proliferazione aumentano i casi di chi non scarica i rifiuti in porto, come prevede la legge, ma direttamente vicino agli scogli delle baie. I depuratori, che languono per mancanza di manutenzione e in molti comuni italiani sono rimasti alla capienza e alla capacità di diversi decenni fa, non reggono alla pressione degli avventori turistici nelle località balneari. La superficie dell’acqua si riempie sempre più di frequente di bolle e di altre scorie. Così come la quantità di plastica, di scarti chimici e di oleodotti amplifica il deambulare dei villeggianti, rendendo gli oceani una base già contaminata su cui gettare altra spazzatura, altri residui organici. L’innalzamento del livello del mare ha ristretto le spiagge, le ha ridotte, per cui gli ombrelloni sono adesso addossati in sparuti tratti di costa e alle spalle del litorale sorgono gli scheletri di nuove costruzioni, nuovi appartamenti in serie, bilocali da svendere o da cedere in affitto alla fiumana di gente in transito e che per la restante parte dell’anno rimangono disabitati, chiusi a chiave in attesa dell’estate a venire.
Del resto, il passaggio di turismo induce un circolo immobiliare vizioso, i presidenti di Regione firmano di continuo appalti per erigere resort di lusso, residence, alberghi, piscine, campi sportivi. L’immagine dei luoghi di una volta si frantuma dietro questa pervasiva retorica edilizia che altro non è se non un’impasse globale. Perché frutto di accordi illeciti e corruzione oltre che di consumo di suolo, danni ambientali, rischi di erosione e frana.
La Liguria, da questo punto di vista, è un caso istruttivo. Tra le automobili che percorrono sistematicamente le due corsie dell’Aurelia, spiagge sempre più strette, palazzi per erigere i quali bisogna scavare all’interno dei pendii grattando via interi pezzi di montagna, file di lettini e di ombrelloni a caro prezzo i cui gestori sono riusciti a collocare finanche sui pochi, casuali scogli della zona di Portofino, la regione domanda ormai lo stato di emergenza allo scadere di ogni inverno. Perché basta una mareggiata e si aprono cinque, sei fronti franosi. Le strade rischiano di crollare.
Trombe d’aria imperversano sulle isole e sulle coste al limitare della penisola, i fiumi esondano. Forse si tratta di meri casi di forte maltempo, e però le immagini di catastrofe intasano il feed di Instagram, trasformando l’estate in una parentesi crepuscolare, anche dal punto di vista estetico. Lontane sono le tradizionali vedute di allegra convivialità tra gli ombrelloni, completini alla marinara e tavole imbandite, in primo piano rispetto a sfondi di un intenso azzurro. È in corso un vero e proprio processo di saturazione: di visitatori occasionali, di traffico, di ristoranti, di bar, di attrazioni turistiche, di palazzine. Il mondo retrocede, comprimendosi. E invece di diluire la richiesta che continuamente esigiamo da lui, alziamo collettivamente la posta: questo almeno sembra essere l’atteggiamento di governi e giunte territoriali, che affannosamente imbastiscono richiami al profitto e li preparano affinché tale prerogativa non abbia da esaurirsi mai.
Pigiati come siamo su un corto lembo di sabbia, di fronte a un Mediterraneo che, come denuncia un dossier del Wwf, a luglio ha finito le scorte disponibili di pesce, nel senso che i sistemi di pesca intensiva lo avrebbero già depredato di tutte le sue specie a soli sei mesi dall’inizio dell’anno, non fosse che l’economia punta anche e soprattutto sull’importazione, registriamo nostro malgrado il lamento sordo di ciò che ci circonda. Fingendo di non sentirlo, non prestandogli troppa attenzione. Avvertendo dentro di noi il desiderio di distogliere in fretta lo sguardo, tornare alle nostre occupazioni, al nostro regime ordinario. Lasciando in pace il mare, le spiagge, la fauna locale, la pressione che produciamo involontariamente sul loro ecosistema. Volgendo meticolosamente noi stessi a luoghi che rispondono, in misura maggiore, al nostro controllo. E ci restituiscono sguardi addomesticati, prevedibili. Settembre si schiude con la docilità di scenari attesi, visivamente meno cupi, simili a ciò che già conosciamo.