C’è chi colora di verde il Canal Grande di Venezia o blocca le tangenziali. Però, c’è anche chi si siede al tavolo con i docenti all’università per sapere se, come e quanto l’industria dei combustibili fossili, responsabile numero uno della crisi climatica, finanzia e influenza didattica e ricerca. Chi sostiene le cause per il clima in tribunale. Chi sta con gli operai vittime presunte della transizione energetica e chi con le vittime di tutte le guerre.

Gli attivisti e le attiviste del clima sono cresciuti. Erano perlopiù adolescenti quando riempivano le piazze durante gli scioperi del venerdì al seguito di Greta. Oggi, delusi dalle risposte dei governi, ma cresciuti nella consapevolezza, hanno diversificato il loro impegno scegliendo metodi, strategie e bersagli molto diversi. A fare da controcanto ai blitz imbratta-monumenti di Ultima Generazione sono, per esempio, gli attivisti della campagna End Fossil, impegnati in una vertenza meno dirompente, poco spendibile sui media, ma non meno radicale: allontanare l’industria fossile dalle aule universitarie. Non è un compito facile. A La Sapienza di Roma (ma ci stanno provando anche a Pisa e a Ravenna), oltre ad occupare le aule, hanno compilato richieste formali di accesso agli atti, studiato i regolamenti, analizzato il codice etico, chiesto di spulciare i contratti, convocato il Senato accademico, con un bersaglio preciso: l’industria del fossile nazionale, l’Eni. Nel loro vademecum si legge: "Per organizzare la mobilitazione è necessaria parecchia preparazione (...) È fondamentale conoscere gli organi dell’ateneo e i suoi regolamenti (...) Avere presente chi sono i rappresentanti degli studenti e i prof che possono solidarizzare è fondamentale. In particolare, per costruire un canale comunicativo con il corpo docente".

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Mike Kemp//Getty Images

"Le istanze di End Fossil sono assolutamente condivisibili, un po’ meno i metodi, al limite della legalità", dice Livio de Santoli, prorettore alla Sostenibilità dell’Università La Sapienza di Roma. "Loro vorrebbero interrompere i rapporti con Eni, ma questa richiesta viola il principio fondamentale di autonomia che riguarda sia l’università come istituzione sia ciascun ricercatore che è libero di fare ricerca su quello che vuole, come è giusto che sia. Però devo ammettere che, grazie a loro, siamo stati sollecitati a intraprendere un processo di ranking per arrivare a discriminare chi utilizza ricerche virtuose solo per pulirsi la coscienza. La questione è complessa, non si può risolvere in pochi giorni come vorrebbero gli studenti".

Tra le varie rivendicazioni, condivise con altri movimenti, c’è anche l’inserimento, in tutti i piani di studio, di un insegnamento obbligatorio interfacoltà sulla crisi ecologica, richiesto in una lettera indirizzata ai rettori e alle rettrici delle università italiane. "Queste vertenze nascono dal malessere che proviene dal fatto che studiamo in luoghi dove ancora non c’è una discussione davvero aperta sulle contraddizioni della crisi climatica", spiega Matilde Fravolini, 20 anni, studentessa di Filosofia a Roma, di End Fossil. "Contraddizioni che per noi vanno inquadrate in un’ottica anti-capitalista, il nocciolo del problema. In questo senso l’occupazione del dipartimento di Fisica è stata emblematica: lì si studia la crisi da vicino, ma sempre da lì si finisce a lavorare per multinazionali, come Eni o Leonardo, che sono tra i maggiori responsabili delle crisi che stiamo affrontando, nelle quali non possiamo non includere la guerra o le migrazioni. Per noi è importante modificare i rapporti di forza". Portare la discussione sullo scontro generazionale non funziona con questi ragazzi. "Non crediamo che i giovani siano i buoni e gli adulti i cattivi. Il nostro conflitto è con una classe dirigente, incancrenita su certe posizioni, che in gran parte sì, coincide con una generazione più adulta di noi", sostiene Matilde.

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Simona Granati - Corbis//Getty Images

Alzata l’asticella dello scontro sulle questioni climatico-ambientali, la risposta dell’establishment è sempre più dura, in Italia come in altri Paesi europei, dove le azioni degli attivisti, anche le più pacifiche, sono sempre meno tollerate, più spesso ridicolizzate dai media, se non represse dalle forze dell’ordine, e i protagonisti bollati come eco-terroristi. "Il movimento dei giovani del clima ha subito una trasformazione importante nell’ultimo anno e mezzo, è diventato più radicale", osserva Stella Levantesi, giornalista climatica e autrice di I bugiardi del clima (Laterza). "Quello di cui non si parla a sufficienza è la motivazione delle proteste. Un’analisi dell’Istitute for Strategic Dialogue ha messo in evidenza che nei media si parla molto dell’antagonismo ma non emerge il perché questi ragazzi stanno protestando. La tattica è di raffigurarli come 'nemici dei cittadini', per prenderne le distanze. Questo atteggiamento influenza la percezione pubblica sulla crisi climatica e fa venir meno il quadro complessivo, l’impatto sulle nostre vite, sulla salute pubblica, sulla giustizia, oltre a non fare luce sulle cause. In sostanza, manca un vero dibattito pubblico sul clima. È un problema immane, che va affrontato".

Tra i Fridays for future, oggi presenti in Italia con una rete di 30 gruppi locali, c’è la consapevolezza di aver portato la crisi climatica nell’agenda politica. "Abbiamo studiato. Abbiamo acquisito conoscenza delle pratiche. Abbiamo capito quali sono gli aspetti strettamente collegati alla crisi climatica, per esempio, il lavoro", dice Ester Barel, 21 anni, studentessa di Giurisprudenza a Milano, tra i portavoce di Fridays for future Italia. "Non siamo i bambini che lottano per gli orsi polari. Siamo consapevoli che la crisi climatica ha una componente politica notevole, mentre si cerca di far passare l’idea che bastino soluzioni tecniche per risolverla. Sappiamo che pesa di più sulle categorie marginali, che colpisce di più il Sud globale. In Italia ci siamo schierati a favore della vertenza dei lavoratori della Gkn di Firenze perché il lavoro si perde proprio perché una vera transizione non è ancora iniziata".

Serpeggia anche un po’ di delusione per non vedere attuate misure concrete. "Siamo un po’ arrabbiati, è vero. Ma la nostra rabbia viene dalla passione che abbiamo per la ricerca di soluzioni alternative. Significa: guardate che si può vivere meglio, che c’è un diritto alla vita. Che abbiamo forza e speranza", è lo sfogo di Ester. Tra le azioni recenti dei Fridays for future c’è il sostegno alla causa Giudizio universale, intentata da una ventina di associazioni contro lo Stato italiano per l’inazione climatica: dopo tre udienze, è attesa a giorni la sentenza definitiva, che dirà se la nostra politica per il clima è adeguata oppure no. Sarà l’occasione per ritornare in piazza. Per festeggiare, o per intensificare la protesta.

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