L’ultima in ordine di tempo a lanciare l’allarme è stata Coldiretti, dopo Legambiente: 53 per cento di neve in meno sull’arco alpino, laghi e fiumi quasi in secca, uno per tutti il Garda al 38 per cento. Un allarme idrico riconducibile all’emergenza climatica che il nostro pianeta sta vivendo, con alluvioni, inondazioni, siccità e frane che colpiscono 189 milioni di persone all’anno nel mondo. E tra questi, secondo i dati Cnr, 25 milioni sono coloro che si trovano costretti a spostarsi dalle loro abitazioni in cerca di condizioni ambientali migliori per vivere.
Attualmente le aree più colpite dal cambiamento climatico e dal conseguente movimento migratorio sono, nel mondo, l’Africa occidentale, centrale e meridionale, l’Asia meridionale, l’America centrale e orientale e i piccoli Stati insulari. In Europa, invece, sulla red list risultano tra gli altri la Russia, la Spagna, la Germania, la Francia, ma anche il Regno Unito, la Polonia. E l’Italia che, oltre alla contingente siccità, deve fare i conti con le zone costiere soggette a inondazioni e con le superfici montane a rischio frane, e che risulta uno dei Paesi più a rischio dal punto di vista ambientale. Ebbene sì, il fenomeno della migrazione climatica ci riguarda molto più da vicino di quello che normalmente percepiamo e non sempre corrisponde all’immagine delle lunghe file di persone con i bagagli sulle spalle e i bambini per mano.
«Per migranti climatici o rifugiati ambientali si intende chi è costretto a spostarsi in seguito a eventi climatici estremi; se gli spostamenti sono all’interno dei confini nazionali si parla di migranti o rifugiati interni, ma ci sono anche i cosiddetti migranti o rifugiati immobili, che non riescono a spostarsi davvero e allora trovano rifugio e ospitalità nelle zone limitrofe, ad esempio in case costruite ad hoc, come quelle per i terremotati, restando quindi nelle vicinanze del luogo in cui si è verificato l’evento», afferma Angela Paparusso, demografa e ricercatrice Cnr. «La migrazione immobile è in stretta relazione con la capacità di resilienza agli eventi e può variare in base alle capacità socioeconomiche delle persone; se c'è carenza di mezzi ci sarà anche impossibilità di muoversi. Nella classifica mondiale dei Paesi d’origine dei migranti immobili, stimata per il 2100, l’Italia è al diciannovesimo posto, dopo l’Angola e prima del Sud Africa. Un dato preoccupante a cui si aggiungono le previsioni di un aumento dei rifugiati ambientali nel mondo con la stima di superare i 200 milioni nel 2050», precisa la ricercatrice.
Il grande problema a livello internazionale è che la figura del migrante o rifugiato ambientale non è equiparata a quella del rifugiato politico: solo chi si sposta a causa di una guerra, che magari ha causato sul territorio carestia e povertà, è riconosciuto a livello internazionale dalla Convenzione di Ginevra per i rifugiati e può ricevere aiuto economico nel Paese ospitante. «Sicuramente manca una regolamentazione a livello internazionale, anche se a luglio 2022 l’Onu ha dato un primo input stabilendo un rapporto diretto tra i diritti umani e i diritti ambientali per i rifugiati ambientali che richiedevano asilo, anche se questo aspetto non è stato ancora recepito dall'Unione Europea. Solo la Svezia ha stanziato fondi pubblici per accogliere i rifugiati climatici e promuovere start up», spiega Angelica De Vito, da tre anni consulente diplomatica presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite in tema di rifugiati climatici, 14.200 follower su Instagram.
«Mentre la Francia vede gli ambientalisti protagonisti del dibattito, in Italia il tema è ancora sottostimato. Eppure sono sempre più sotto gli occhi di tutti gli episodi come quello della frana di Ischia che svelano il legame tra le azioni umane, la salute degli uomini e il loro diritto a vivere in un ambiente salubre, come previsto dalla nostra Costituzione e dalla Carta dei diritti dell’uomo. Così, mentre spesso si processano i responsabili solo a disastri compiuti e ci si concentra sugli allarmi della protezione civile, manca in Italia una politica che preveda e gestisca il fenomeno migratorio interno ed esterno e una politica che agisca sulla prevenzione e sul controllo delle infrastrutture presenti sul territorio», aggiunge l’esperta. Non mancano però proposte concrete e immediate: «Sull’esempio della Spagna, si potrebbe innanzitutto inserire l’educazione ambientale come materia obbligatoria nelle scuole. In secondo luogo guardare alla sostenibilità delle nostre azioni e delle imprese per porci in un modo più attento e responsabile rispetto allo sfruttamento del territorio. Infine, riconoscere i nomadi climatici come rifugiati a tutti gli effetti e dare loro protezione, oltre a creare una connessione con la loro terra d’origine», continua Angelica De Vito.
Inutile però nascondersi che “lo spirito del tempo” che si è registrato all’ultima Cop 27, la conferenza delle parti della convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si è tenuta a Sharm el Sheikh lo scorso novembre, dove sono pesate le assenze di Cina e India, i maggiori produttori Co2 nel mondo, non è stato particolarmente fattivo e incoraggiante. «Eppure l’Italia potrebbe diventare capofila di un grande cambiamento: la nostra Costituzione e in particolare l’art 2 e l’articolo 32, parlano infatti del diritto di vivere in un ambiente salubre. E questo è l’approccio che l’Assemblea delle Nazioni Unite ha promosso, riconoscendo il diritto ambientale come uno dei diritti umani», conclude la consulente Onu. Nella pratica vuol dire "solo" trovare un ministero competente e un’agenda politica che ponga l’urgenza dei rifugiati climatici tra le sue priorità reali.
Le nostre coste a rischio
Città, coltivazioni e insediamenti turistici che occupano oggi le nostre zone costiere corrono il serio rischio di venire sommersi nel giro di due generazioni. Questo il senso dell’allarme espresso con urgenza da Paride Antolini, presidente dell’Ordine dei geologi dell'Emilia-Romagna, commentando la violenza e la quantità delle mareggiate che hanno colpito il litorale delle province romagnole nell’ultimo anno. Le cause del rischio inondazione (che potrebbero quindi far crescere il numero dei rifugiati climatici nel nostro Paese) sono imputabili tra l'altro all’innalzamento del livello dei mari, al progressivo abbassamento della crosta terreste dovuto all’aumento dell’energia delle tempeste nel Mediterraneo. Notizia confortante è che alcuni progetti per scongiurare il pericolo inondazione sono stati già messi in atto a partire dal 2022 nella provincia di Forlì-Cesena, per la difesa della costa e la realizzazione di interventi di riaccumulazione di sabbia su 15 chilometri di litorale.