Pare ci vogliano 21 giorni per "trasformare una vecchia immagine mentale e creare una nuova abitudine". Il tutto con uno sforzo traducibile in quantità massicce di costanza e perseveranza affinché il corpo e i ritmi si adattino a una nuova routine fino a quel momento sconosciuta. Con la quarantena e lo smart working (e figli urlanti e/o annoiati a casa) per qualcuno è stato così, per altri meno, dai primi giorni all'insegna di panico e ansia passati a prendere le misure a videochiamate e calzini sparsi ovunque (e camminando sulle uova per scongiurare il rischio altissimo di bornout) fino a un semi happy end e la promozione di alcuni aspetti del telelavoro (a cui molti si sono affezionati). Il ritorno in azienda non è stato e non sarà una passeggiata, e forse non basteranno 21 giorni per riabituarsi a una realtà tutta nuova, soprattutto quando e se "il piano di riapertura dell'azienda dopo il lockdown è un disastro completo".
Come/cosa fare se il come back è avvolto da una fitta nebbia, sia in termini di rispetto dei protocolli di sicurezza, di divisione delle mansioni, di riguardo della situazione individuale e dei diritti dei dipendenti? Lo spunto per la riflessione arriva dalla risposta dell'esperta di dinamiche e diritto del lavoro di The Cut, Alison Green, a una lettera anonima di un lettore preoccupato dal comportamento del proprio CEO "già discutibile nella leadership anche prima della pandemia", ma ancora di più durante l'emergenza (ancora nel pieno negli USA). Una gestione confusionaria e una comunicazione poca chiara su quali saranno gli step una volta che il lockdown sarà finito, resa ancora più intollerante da una proposta (via zoom) che ha spiazzato i 300 dipendenti lasciandoli (giustamente) "inorriditi e disillusi" ovvero "che l'età, il peso e la razza del personale potenzialmente potranno essere considerati fattori determinanti per il ritorno fisico dei dipendenti in ufficio".
Che si tratti di discriminazione, di poca trasparenza e chiarezza, di commenti inappropriati, di non rispetto del protocollo imposto per la sicurezza del dipendente (per legge la prosecuzione delle attività può avvenire solo in presenza di condizioni di sicurezza che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione) quello che consiglia la dott.ssa Green è di fare squadra e se necessario contattare i sindacati. Agire in gruppo contattando le risorse umane dell'azienda (nel caso l'azienda ne fosse sprovvista scegliere un rappresentare per parlare con i capi) stilando una lista di preoccupazioni e desiderata, comprese le misure e i presupposti specifici che, per legge e buon senso, "devono essere raggiunti prima della riapertura". Mettere nero su bianco la richiesta di prolungare lo smart working per i caregiver e chiunque sia ad alto rischio o vive con qualcuno ad alto rischio, mettendo sul tavolo le direttive governative che sono chiare in merito. Il tono deve essere collaborativo (da "intensificare in seguito, se necessario") sullo stile di "ci teniamo al nostro lavoro, queste sono le nostre preoccupazioni, ed ecco cosa pensiamo sia sicuro e giusto", e non "vedi di soddisfare le nostre richieste o per te saranno guai seri". Perché l'unione fa la forza, sempre.