Ha ancora senso parlare di overtourism? O forse, perché qualcosa cambi davvero, è il momento di andare oltre quel termine - tanto orrorifico quanto passepartout - che genericamente evoca luoghi soffocati e snaturati dal turismo di massa, ma che in qualche modo cristallizza il problema? Sì, è vero, la restaurata fontana di Trevi con la selezione all’ingresso - 400 persone alla volta, non una di più, non una di meno, monetina d’ordinanza alla mano - resta pur sempre realtà di questo anno di Giubileo. Il senso unico sui sentieri delle Cinque Terre, a beneficio di folle calzate con inopportuni sandali, complici i ponti di primavera e l’arrivo dell’estate sta per concretizzarsi come ogni anno. I tuffi spericolati in mutande nei canali di Venezia torneranno presto a farci indignare. I pullman all’assalto di Roccaraso e della sua neve low cost li abbiamo visti tutti. Responsible Travel già alla vigilia dell’estate 2023 segnalava 98 destinazioni principali in 63 Paesi colpite dall’overtourism, destinate ad aumentare.
Ma è la punta di un iceberg. Non immaginate solo orde selvagge di fanatici dei selfie nelle località più famose, è tutta una questione di proporzioni, e ci sono tante storie che (ancora) non vengono raccontate: «Accanto a Venezia, per esempio, c’è la piccola isola di Juist, in Germania», racconta Justin Francis, fondatore di Responsible Travel (responsibletravel.com), «dove un numero relativamente basso di turisti sta sopraffacendo i local, cambiando il carattere dell’isola e distruggendo il fragile ambiente costiero. Vediamo Machu Picchu, dove un controverso nuovo aeroporto minaccia di distruggere un sito Unesco già fortemente vulnerabile, allineato con Caño Cristales in Colombia, che riceve solo una frazione dei visitatori di Machu Picchu e dove, tuttavia, l'ecosistema fluviale è già minacciato da un aumento delle attività umane».
Eppure, secondo Michael O’Regan (michaeloregan.me), docente di Turismo ed Eventi alla Business School della Glasgow Caledonian University, di quel termine che tanto ci piace e tanto semplifica sarebbe il caso di iniziare a fare a meno se, davvero, vogliamo provare a fare qualcosa di costruttivo. Lui, del resto, lo scrive dal 2023 (in un illuminato articolo post pandemia per blog.geographydirections.com) e lo ribadisce oggi a Elle (qui trovate l'intervista completa): «Il termine “overtourism” è diventato un concetto tanto ampio quanto semplicistico per affrontare questioni complesse», racconta O’Regan. «È stato coniato solo nel 2016 da un giornalista di viaggi ed è diventato abusato e fuorviante. Si basa molto su metafore che ritraggono il turismo e i turisti come una minaccia o una crisi, che possono influenzare l’opinione pubblica. Il termine manca di prove e di rigore empirico ed è spesso usato come strumento retorico piuttosto che come base per avviare soluzioni significative. Invece di concentrarsi sulle questioni sistemiche, il termine spesso incolpa i turisti, portando a narrazioni divisive. Ad esempio, ci sono molte ragioni per cui i prezzi delle case aumentano in una città. È vero, c’è il turismo, ma anche l’aumento dell’immigrazione e le sfide legate alla pianificazione e alla costruzione di nuovi alloggi».
Certo, è innegabile che i luoghi siano letteralmente soffocati da tsunami umani, e il fenomeno è in costante crescita, insieme alle keybox degli affitti brevi appese dappertutto: «1,8 miliardi di viaggiatori entro il 2030 potrebbero essere 1,8 miliardi di opportunità o 1,8 miliardi di disastri e sta a noi scegliere», ammoniva già nel 2017 l’allora segretario generale dell’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite (Untwo), Taleb Rifai. C’è però a priori una colpevolizzazione del turista (le scritte “tourist go home” un po’ ovunque o le manifestazioni contro il turismo in Spagna ne sono un esempio), mentre forse l’attenzione dovrebbe essere spostata altrove. Ovvero sulla governance, ma anche sulle scelte dei local, pure politiche. «Sì, alcuni luoghi sono sovraffollati in certi periodi dell’anno e, naturalmente, diamo la colpa ai turisti piuttosto che alle strutture istituzionali e aziendali che permettono e gestiscono male il turismo», prosegue O’Regan. I turisti non hanno alcun controllo su questioni sistemiche come la pianificazione urbana, le infrastrutture, le politiche turistiche e le strutture economiche che privilegiano le entrate turistiche rispetto alla sostenibilità. Piuttosto che dire “tourist go home”, i residenti dovrebbero votare chi ha una vera strategia per il turismo. Ciò potrebbe significare votare per partiti che sostengono la restrizione di nuove licenze alberghiere e affitti a breve termine, tasse turistiche, nuove case popolari e così via. L’attenzione dovrebbe essere focalizzata su questi fattori di fondo, piuttosto che sulla colpa dei singoli turisti. Ciò significa raccogliere dati, ad esempio, sul numero di affitti a breve termine (come Airbnb) e sul numero di ospiti in tutta l’Ue (e nel 2026 è previsto un regolamento dell’Unione che obbliga a farlo)».
Ma come siamo arrivati fino qui? Duccio Canestrini (ducciocanestrini.it) è un “antropologo pop”. Grande viaggiatore, giornalista autore di reportage nei tempi d’oro di Airone, documentarista, oggi è “sempre in cammino” e si divide tra l’insegnamento dell’Antropologia del turismo al Campus universitario di Lucca (Università di Pisa) e la divulgazione, con ogni mezzo possibile, incluse le conferenze spettacolo, della materia che non smette di affascinarlo. Non potevo che raggiungerlo, nella sua Trento, memore dei suoi libri su turisti e turismo che hanno precorso i tempi in tempi non sospetti: da Turistario del 1993, “luoghi comuni dei nuovi barbari”, i turisti, ça va sans dire, “anime erranti, costretti a scaraventarsi con la macchina fotografica in qualche pseudoparadiso. Inutile tentare di tirarsene fuori: ci siamo dentro tutti”. Da Turpi Tropici-Cinque storie dall'altra faccia dell'eden, del 1997, in cui romanzava l’invasione di turisti gaudenti e noncuranti in quei tropici truccati da paradisi in terra, passando per Andare a quel paese. Vademecum del turista responsabile, del 2003.
Non a caso, Canestrini ha le idee parecchie chiare su quello che chiamiamo (e che non dovremmo chiamare) overtourism. «Non è un fenomeno che salti fuori come una novità inattesa o incongruente o paradossale. Anzi. Volendo essere proprio spietatamente realistico, è in linea con il cosiddetto sviluppo della nostra società, che spesso viene confuso con la crescita. Per come la vedo io, l’overtourism, inteso come troppo, ha a che vedere con l’overdose che abbiamo ormai prodotto in diversi campi. Se penso alla produzione di rifiuti, alla produzione di materiali plastici, al troppo gas serra, forse anche alla troppa informazione caotica, all’eccesso di estrazione di materie prime, alla mobilità congestionata a tutti i livelli, ecco che abbiamo anche l’iperturismo, chiaramente».
Del resto, viaggiare - spostarsi - non è mai stato così facile, così accessibile a tutti, così economico. «C’è un bel libro di un antropologo norvegese, Hiland Eriksen, presidente della Società di Antropologia Sociale Europea: si intitola Fuori controllo. Un’antropologia del cambiamento accelerato», continua l'antropologo. «Tra i tanti c’è anche un capitolo che parla dell’enorme incremento e accelerazione della mobilità. Certo, è vero, il cambiamento è naturale, il fatto è che siamo in un’era di cambiamento acceleratissimo e questo cambia parecchio lo scenario. Quindi quando si parla di overtourism, secondo me si dovrebbe parlare di un fenomeno sistemico, strutturale, perfettamente coerente con l’impostazione che stiamo dando alla nostra civiltà, alla nostra convivenza, al nostro modo di stare sul pianeta, al traffico di merci e di persone sul pianeta Terra. Il “consumo” delle destinazioni si inquadra in uno scenario più ampio del consumo di tutto: consumo delle merci, consumo delle esperienze, consumo delle relazioni umane e così via».
Certo, poi c’è tutto l’aspetto edonistico, dell’ostentazione. E Canestrini cita un evento esemplare. «Ricordate The Floating Piers, la passerella sul lago d’Iseo opera dell’artista Christo nel 2016? Ecco, quella è stata una pietra miliare. Interessantissima sotto tanti punti di vista, ma è stato anche un dramma vedere come decine di migliaia di persone, stregate da una comunicazione anche irresponsabile, avessero scatenato una situazione insostenibile di iperturismo paradossale. Avevano intasato i mezzi di trasporto, gli alberghetti locali scoppiavano, e tutto questo per cosa? Su questo evento ho tenuto un corso al campus universitario di Lucca: abbiamo analizzato i video, le foto, i selfie, ogni testimonianza delle persone che hanno visitato l’installazione. Cosa dicevano? In pratica non dicevano niente altro che la loro esperienza di essere lì. Non c’erano contenuti, valori, introspezioni, era solo presenzialismo, quindi chiaramente veicolato dai social network. Si ritorna quindi un po’ a quella vecchia modalità del viaggiare per dire che si è viaggiato: “ho fatto il Brasile, ho fatto la Spagna...”. Una mentalità che una volta apparteneva al jet set, perché dava prestigio il semplice andare, e più lontano andavi, più prestigio avevi».
Che fare dunque? Semafori per i selfie, app per la prenotazione degli accessi a spiagge e sentieri, sensori per rilevare gli escursionisti, ticket d'ingresso e tante altre forme di “contenimento” sono già una realtà - e secondo una ricerca della società di marketing turistico Jfc (jfc.it) il 49,3% degli italiani è d’accordo con l’introduzione di misure che limitino e/o controllino i flussi turistici nelle località più ambite, “per non far entrare troppa gente”. Ma le regole restrittive sono davvero utili? «No, non funzionano», afferma deciso O’Regan. «Sotto il regime di Franco, nella Spagna degli anni Cinquanta, i bikini furono inizialmente vietati, soprattutto negli spazi pubblici come le spiagge. Ma la loro diffusione progressiva, anche sotto il regime, non poté essere completamente fermata. Le regole restrittive rischiano di creare una narrativa divisiva che classifica i turisti come “giusti” o “sbagliati”. La multa ai turisti sorpresi a fare il caffè con tanto di fornelletto sui gradini del ponte di Rialto nel 2019 ne è un esempio. È necessario trovare un equilibrio tra accessibilità e sostenibilità, assicurandosi che il turismo rimanga inclusivo e proteggendo al contempo le comunità e gli ambienti locali. Le destinazioni hanno bisogno di un approccio globale che affronti le questioni sistemiche piuttosto che cercare solo di controllare il comportamento dei turisti. La tassa d’ingresso a Venezia non avrà un impatto sui numeri del turismo. Questo tipo di tasse, così come le tasse di soggiorno, dovrebbero essere reinvestite nelle comunità e devono essere trasparenti. Regole, multe e codici di condotta possono funzionare per un museo o un’attrazione, ma non per una città o per un Paese».
Insomma, quell’afflusso eccezionale di persone nei luoghi più belli del mondo, di cui siamo a fasi alterne vittime e responsabili, ha un difetto di fondo: non viene gestito a dovere, a tutti i livelli, e non serve sfogarsi sparando ai turisti con le pistole ad acqua come è successo l’anno scorso in Spagna. Che fare però per essere, almeno, turisti “migliori”? «Molti turisti vogliono essere più sostenibili e responsabili, ma non sanno da dove cominciare», conclude Michael O’Regan. «Vogliono sostenere le imprese locali, rispettare le norme culturali e ambientali ed essere consapevoli del loro impatto sulle comunità che visitano. L’industria e le autorità non hanno fatto nulla per aiutarli. Non esiste uno standard nazionale o europeo che definisca un prodotto o un servizio turistico verde o sostenibile. Se vado su una piattaforma di prenotazione di alloggi ora ci sono certificazioni private che suggeriscono la sostenibilità. Tuttavia, non conosciamo le aziende commerciali e gli standard che ci sono dietro, e senza standard trasparenti e accettati è difficile prendere decisioni informate. Per essere turisti migliori, dovremmo incoraggiare i fornitori di servizi turistici e i responsabili politici ad adottare e applicare pratiche sostenibili, tassare il carburante per l’aviazione, disporre di sistemi che aiutino a scegliere le attività locali per la ristorazione, lo shopping e le esperienze, chiudere le attività turistiche illegali e multare quelle colpevoli di greenwashing. Certo, questo potrebbe far aumentare i costi, ma sposterà tutto il turismo verso forme più sostenibili ed etiche».
Ancora più semplicemente, Duccio Canestrini ci ricorda che «Homo turisticus, siamo un po’ tutti, chi più chi meno, e quando viaggi alla fine sei quello che sei nella vita. E anche se a prevalere oggi è il paradigma produttivista e consumista, se hai un visione minimamente etica della vita, ce l’hai sia che tu stia sul divano a leggere sia che tu vada in giro per il mondo. Di turismo si è sempre parlato in termini di pernottamenti e di flussi, in chiave economica. Io sostengo da molto tempo, invece, che sarebbe bene parlarne in termini di scienze umane: di relazioni che si vengono a creare, di impatti. Di consapevolezza». •