Inserito il gettone, sentiamo prima un clic metallico, poi il gorgoglio delle tubature arrugginite: l’acqua parte. È gelida. Il primo istante è uno schiaffo. Un richiamo all’ordine. Non siamo più esseri da salotto, da frigo pieno, da WhatsApp con le spunte in ordine. Ogni estate ce ne dimentichiamo, ogni estate ricominciamo da capo.

Un tubo grigio, opaco di calcare, incrostato di memoria collettiva. Intorno: sabbia cementificata, fosse comuni di puffacchiotti sfilati dalle Crocs, file di bagnanti che fingono di non guardarsi mentre si sciacquano via la giornata.

Il palo della doccia a gettoni non è un oggetto d’arredo. È un’arma di resistenza, che ci ricorda come si sta al mondo: aspettando il nostro turno, bagnandoci quando tocca a noi, asciugandoci un arto per volta, novanta secondi per volta, un’estate per volta.

Quelle docce costituiscono il più sincero dei riti di passaggio estivi: costano poco, durano poco, mostrano tutto. Un gettone è la chiave per novanta secondi di grazia. Reperto numismatico che nessuno collezionerà, inutile altrove, ma indispensabile lì. La sua economia è una piccola masterclass di vita. Non si può dividere, raramente può essere rimborsato. Si può solo usare adesso, o dimenticare nella borsa a vantaggio di un proprio io futuro.

Valuta balneare parallela, il gettone da doccia è più forte dell’equivalente in euro perché l’apprezzano l’attesa, la negoziazione, la strategia. “Ne hai uno in più?” “Te lo do, ma ricordati che ieri te ne ho già prestato uno di quelli per i piedi.” “Ne ho due, ma solo se mia figlia smette di piangere.”

Lo consegniamo all’apposita fessura con un gesto che sa di offertorio, e da quel momento il tempo scorre: non più apparentemente infinito, ma severamente contato. Clessidra liquida dei secondi precisi in cui tutta la dignità che abbiamo provato ad accumulare, d’inverno, in interminabili email che avrebbero potuto essere una notifica (e in trattamenti viso a base di promesse) va a farsi benedire da questo battesimo inverso, in cui è l’acqua a venirci addosso e non noi a immergerci in essa. Lo shampoo è rapido e furtivo, perché proibito; il risciacquo selettivo, la vergogna condivisa. Non c’è più religione, ma c’è il gettone.

La doccia a gettoni è un monumento minimo alla democrazia balneare: l’ultima esperienza collettiva dell’estate italiana. Ha educato generazioni a sopravvivere con stile alle avversità e a un rituale in cui il corpo torna corpo, tra sedimenti che graffiano, costumi fuori sede e vapore che sale dai piedi ustionati.

A differenza del lettino o dell’ombrellone, che separano, la doccia a gettoni unisce. Non c’è gerarchia, non c’è riservatezza. Ci siamo noi, la nostra pelle impanata, e quella fila di sconosciuti che attendono con l’asciugamano sulle spalle, come penitenti da un prete.

Alla doccia comune non si mente. Non c’è trucco né parrucco che regga al primo getto: siamo tutti uguali sotto il suo singhiozzo. La teenager col mascara waterproof, il nonno col panama di Amazon, il quarantenne in crisi di addominali, la gran signora con la pinza nei capelli: tutti svestiti quel tanto che basta per essere sinceri. Quel palo potrebbe essere lì da sempre. Da prima del lido di pertinenza. Per quanto ne sappiamo, da prima del mare. Nessuno l’ha progettato. È apparso, come appaiono le cose inevitabili. Non è elegante, non è vintage, non è instagrammabile. Ha le tubature a vista, il tettuccio di cannizzo sdentato. Eppure resiste. È verticale, eretto come un ultimo chiodo piantato nella carne molle della bella stagione, sfida sottile all’orizzonte che tutto pareggia, distende, dissolve.

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Bruno Barbey/Magnum/Contrasto

Mentre il mare si allarga, si allunga, professa vie di fuga orizzontali, il palo della doccia resta lì, immobile, sincero come una domanda a cui nessuno vuole rispondere. Sta in piedi come un segno di interpunzione lasciato in mezzo a un discorso troppo lungo: una parentesi umida in un giorno d’agosto. Chi ci si piazza sotto si erge contro il fluire, si arrende a un gettito ma resiste a una deriva.

In un mondo che ci vuole distesi, spiaggiati o dissolti nell’indefinito, questa doccia è una croce, una spina dorsale, una posizione morale. Dice: non ti stendere. Non adesso. Resta verticale almeno finché scorre l’acqua.

È un oggetto che non vuole piacere. E per questo resta. Non cambia, non si aggiorna, non si digitalizza. Resta uguale mentre il mondo intorno si rifà il lifting. La spiaggia cambia concessionario, le cabine diventano lounge, i lidi si chiamano Beach Club. Ma il palo è sempre lì. Ritto, indifferente, burbero.

C’è un momento, tra il 25 e il 31 agosto, in cui la doccia a gettoni cambia volto. Non è più il gesto del ritorno, ma quello del commiato. L’ultima doccia prima della partenza. Lì succede qualcosa. Si resta sotto al flusso qualche secondo in più. Si guarda l’acqua scivolare via come un epilogo. Si ascolta la voce del vicino che dice: “Vabbè, ci si rivede il prossimo anno”. In quel momento, la doccia diventa una cabina telefonica emotiva, un confessionale ad acqua aperta. Non c’è bisogno di dire altro. L’acqua dice tutto. Scioglie gli abbracci, cancella i messaggi scritti sulla sabbia, estingue il fuoco fatuo di certe storie da ombrellone.

E di nascosto, sotto quella doccia, piangi un po’. Un misto di sale e malinconia. Nessuno gli mente. Davanti a quel palo siamo la nostra versione più fragile, più tattile, più disarmata. Qui il corpo non è spettacolo. È recipiente da svuotare, risciacquare, riabilitare.

Perché questa doccia è l’ultima prova generale della convivenza. Nessuno ha più diritti degli altri, solo più o meno shampoo di contrabbando.

Ma che ne sanno quelli che frequentano i lidi nuovi (quelli con il badge per la doccia, col tasto “nebbia tropicale”, con l’altoparlante che manda musica chill) del brivido di un gettone incastrato, dell’odore di Felce Azzurra altrui, della nostra coreografia da primi ballerini del teatro San Caldo tra schiuma e acqua?

Le docce senza gettoni non sbagliano mai, non finiscono mai, non chiedono nulla. E proprio per questo non restituiscono granché. Sono efficienti, ma non educano. Sono comode, ma non memorabili. Sterili come un piacere senza corpo.

Il palo della doccia a gettoni non giudica. Accoglie bambini urlanti, palestrati gentili, adolescenti che lavano via il sale con la stessa ansia con cui vorrebbero scrollarsi di dosso i rossori infantili. Spesso si sta in fila. Si attende seminudi, tra estranei, di potersi sentire nuovi per un attimo. C’è sempre qualcuno che allunga il braccio per recuperare l’ultimo spruzzo del gettone altrui. È una bravata a basso rischio, ma anche un grande gesto d’intimità involontaria. Un secondo condiviso, di nuovo bagnati, di nuovo vivi.

E poi, il momento finale. Lo sentiamo come un presentimento, un’intuizione che ci scatta nei nervi. Restiamo un attimo immobili. L’acqua non si è fermata. Non la sprechiamo: la onoriamo. Il getto rallenta, sussulta e si ferma. Abbiamo il sapone della vergogna ancora addosso ma la sabbia è tornata subito, beffarda. Nessun altro oggetto meglio di quel palo sa impartire la lezione dell’estate: tutto finisce prima di quanto vorresti.