Recentemente ho cambiato città. Dico recentemente e poi quando mi chiedono “da quanto tempo vivi a Roma?” mi trovo costretta a dire che sono quasi due anni. Ma due anni non sono niente. Non sono abbastanza per costruire delle abitudini solide, figuriamoci una rete sociale. L’amicizia è un aspetto della vita di cui da adulti ci occupiamo poco, eppure è quello che da giovani ci impegna la maggior parte del tempo. Sono convinta che l’adolescenza sia il periodo della massima lucidità, della vera saggezza. Come dice Taylor Swift: When you are young they assume you know nothing / but I knew everything when I was young.

Da adulti fare amicizia è davvero più difficile?

È come se allora avessimo un quadro chiaro di chi siamo realmente, di chi vogliamo diventare, ma poi ce lo scordiamo, sviati dalle ingerenze esterne. Da adulti è più difficile orientare le scelte di vita sulla base di dove sono i nostri amici, cosa che non esiteremmo a fare a sedici anni (come la scelta della scuola, per esempio, ma ci insegnano che è irragionevole scegliere rispetto a dove andranno i nostri amici). Mentre cresciamo veniamo avviati all’individualismo, alla realizzazione del nostro potenziale; perseguiamo corsi di studio e lavori all’estero, senza neanche concederci la sofferenza per quello che lasciamo. È giusto: la spinta alla scoperta, l’impegno a “uscire da qui”, sentirsi soffocati dalle norme sociali della comunità in cui si è nati e cresciuti. Anch’io non vedevo l’ora di andare, e sono andata, non mi sono mai stabilita da nessuna parte. Questo non è il mio diario di pentimento, ma una riflessione su quello che ho perso, che perdiamo, senza accorgercene, anche perché non abbiamo le parole per definirlo (“amicizia” è solo una parte del discorso, perché possiamo avere persone a cui siamo legati ma che non sentiamo regolarmente, che vivono dall’altra parte del mondo, e che non contribuiscono davvero alla nostra “rete sociale”).

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Foto di Haley Lawrence su Unsplash

La rete sociale, strumento di sopravvivenza

Per prima cosa, il bisogno di auto-realizzazione su cui abbiamo spinto tanto, come società in generale, non è così slegato dalla rete sociale. Nella psicologia contemporanea c’è una nuova enfasi sulle relazioni. Non ci si può realizzare e avere successo senza una solida autostima. E come si può coltivare l’autostima senza un confronto continuo con gli altri? Non dico “altri” senza volto che ci applaudono o ci mettono like, ma persone che semplicemente, parlandoci, ascoltandoci, annuendo o meno, ci danno conferma del nostro esistere e ci tengono ancorati alla realtà. Siamo stati educati a pensare: l’autostima viene da dentro! Devi credere in te stesso a prescindere da tutti! Fregatene del giudizio! Ma sono cavolate che provano a mettere a tacere il nostro istinto, quello che a livello profondo sentiamo e sappiamo. Il nostro istinto è sociale, e senza il riconoscimento altrui la nostra reazione evolutiva, quella di pancia, è di allerta, di percepita minaccia, di stress. Lo vediamo quando qualcuno non ci risponde a un messaggio: avrò detto qualcosa di sbagliato? Non valgo nemmeno il tempo di digitare “no”? Eccetera. Quindi l’amicizia non è un addobbo, un sentimentalismo, è proprio una questione di sopravvivenza, di funzionamento sociale.

Gira da anni, nell’ambito di quella che è stata chiamata la friendship recession già nel 2012, la ricerca che dice che non avere amici equivale a fumare quindici sigarette al giorno. La reazione evolutiva alla solitudine è una maggiore produzione dell’ormone dello stress, il cortisolo, lo stress cronico porta a infiammazioni e maggiore probabilità di infezioni. Poiché abbiamo capito da un pezzo che vivere più a lungo non è un granché se poi gli ultimi vent’anni della nostra vita non sono in salute, la ricerca prova a trovare collegamenti e soluzioni.

Quanto ci vuole per diventare davvero amici?

Leggendo varie ricerche, fra cui quelle che ricordano che le abilità sociali sono un comportamento appreso tramite l’osservazione, da piccoli, si capisce che chi non ha mantenuto i rapporti sviluppati durante l’infanzia faticherà a crearne di stabili in età adulta: gli amici “antichi” permettono un risparmio energetico, e visto che la mancanza di tempo e la stanchezza sono le ragioni principali che ci impediscono di coltivare amicizie adulte, risparmiare è vitale. Anche risparmiarci la paura di essere giudicati, rifiutati, di non piacere, che è il vero ostacolo a formare nuovi legami superficiali che potrebbero trasformarsi in qualcosa in più. Ci vogliono circa cinquanta ore per passare da conoscenza ad amicizia, e duecento per arrivare all’amicizia stretta, per diventare close friends. Sono ore di contatto nella vita reale? Valgono i messaggi vocali? Valgono le chat? Comunque, se la ricerca sugli amici dell’infanzia è vera, io sono spacciata: non ho mantenuto nessuno dalle elementari, quasi nessuno dal liceo, tranne una persona che fino a poco fa ho indicato come “il mio migliore amico”. Sarebbe quello che nei termini specifici viene indicato come best friend: in media ne abbiamo 1.5 a testa e di solito è del nostro stesso sesso. Peccato che lui viva all’estero da abbastanza tempo per aver preso la nazionalità di un altro Paese.

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Foto di Vonecia Carswell su Unsplash

Una cosa che mi ha colpito di queste ricerche sui rapporti sociali è che a dare maggiore beneficio in caso di difficoltà della vita più che tanti amici che non si frequentano fra loro, è una rete unita, tipo Friends, un gruppo di persone che hanno rapporti anche fra di loro. L’ostacolo principale è la geografia. Secondo un articolo del New York Times che è costantemente aggiornato dal 2012, il 12 per cento degli americani non ha amici stretti. Nel 1990 i senza-amici erano solo il 3 per cento. Tantissime le ragioni, ma sono aumentati i trasferimenti da uno Stato all’altro. Nel nostro Paese, storicamente basato sulla famiglia, meno di metà della popolazione considera l’amicizia un valore fondamentale per la felicità. Come se contasse solo “il sangue”, o il partner. È aumentato inoltre il tempo che si trascorre con i figli, rispetto al passato, secondo l’American Survey Center: la cultura attuale ci spinge a far ruotare tutto attorno al bambino, quando c’è: orari, argomenti, passatempi. Dopo il primo anno nella nuova città ho cominciato a segnare nell’agenda le persone che vedo o che voglio vedere ogni settimana (lavoro da casa). Sono una grande sostenitrice della “socialità minima”, quella col barista o il compagno di palestra, e anche della socialità superficiale, quella tanto vituperata degli aperitivi. Ma sull’agenda segno le persone che vedo con intenzionalità. Non ho ancora raggiunto una conclusione sul numero ideale di persone da vedere a settimana per non impazzire, appena lo scopro vi aggiorno.

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